13 aprile 2006

La morte del polpo




I fondali bassi si offrivano ad una visione tranquilla del giovane sub.
Agile e forte il corpo scivolava tra le calde acque col battito fluente delle pinne blu , solitario.
I raggi del sole estivo penetravano fino a colorare di rosso e verde le stelle marine e le alghe fluttuanti. Piccoli pesci d’argento guizzavano a nascondersi tra le fessure degli scogli affioranti, dove correvano i granchi arancione. Dal vetro doppio della maschera già mezza piena d’acqua, la linea che divideva il liquido dall’aria, oscillava ipnoticamente. I polmoni aspiravano e ricacciavano aria su per la bocca attraverso il boccaglio e il tubo spruzzante. Fatica, nuotare e serrare tra i denti i gommini del boccaglio. Occorreva stare attenti alle spine dei ricci scuri incollati al fondo roccioso. Una grossa medusa azzurrina ondeggiava lenta allontanandosi verso zone d’alto mare. Il fondo lentamente si allontanava nella pianura sabbiosa dove a tratti una sogliola scombinava per un istante la superficie ferma e le sue minuscole dune. La molla del fucile era già carica, pronta a scagliare il forchettone col tridente verso una preda inesistente. Nell’acqua trasparente solo bollicine e silenzio. Nella striscia rocciosa apparsa improvvisamente tra il marrone e i bianchi marezzati qualcosa sembra vivo anche se immobile. Forse un polpo mimetizzato, il sub guarda meglio e una massa schizza fuori dal suo nascondiglio. La caccia è iniziata, il polpo si sposta verso il largo ma lo fa lentamente. Il sub torna a galla per respirare e di nuovo giù a provare a stanare e colpire il mostro. E’ proprio un mostro: un polpo enorme, ambra scuro. Un tentacolo privo di estremità ne rivela la capacità di lotta e di sopravvivenza. Deve essere un vecchio abitatore di questi luoghi abituato a essere cacciato e a sfuggire sempre alla cattura. L’uomo prova ancora e ancora va a rifornire i polmoni di aria e nuota verso i fondali sempre più profondi. Finalmente il polpo è stanato dalla zona rocciosa, è stato portato verso le sabbie . I polmoni quasi non ce la fanno ma un ultimo sforzo e il polpo è infilzato. Ora il sub è tornato a galla, le onde sono alte ed è lontano dalla riva. Ancora lo sforzo di nuotare, con un braccio solo e le pinne, l’altro braccio tiene fuori dall’acqua, fucile, tridente e polpo.Il polpo sembrava infilzato ma in realtà si è attaccato con le potenti ventose al fucile e lentamente scivola e sta arrivando al braccio nudo del sub. È il suo primo polpo e gli fa schifo sentire i tentacoli sfiorare la mano e poi il polso e il braccio.La vita ancora intera del polpo gli sembra una sfida arrogante e forse vincente. Paura. Finalmente la riva coi suoi ciottoli scivolosi. Il sub torna alla terrazza della casa sulla riva del mare a mostrare alla compagna e al figlioletto che le sta in braccio, la preda che ancora si contorce. Sullo sfondo blu azzurro del mare sotto un sole cocente l’uomo tiene la sua preda col braccio più in alto che si possa, il polpo , lungo quasi un metro oscilla ma è ancora vivo. Si ricorda allora che per farlo morire deve sbatterlo e lo fa sul muretto del terrazzo sul mare. Una due tre tante volte finchè sarà finita per il polpo che alla sera finirà lessato e fatto a pezzi.
Che buona cena con sale e limone e il ricordo della fatica del mattino.


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24 marzo 2006

Fichidindia




Fame ? Voglia di non ubbidire ? Chissà ! I bambini non sognano la libertà, la praticano, pericolosamente. E’ un istinto vitale che sfiora continuamente scatti quasi mortali.La mia testolina castana doveva tirarsi più su del bordo del vecchio tavolo di legno per guardare incantata quel piatto colmo di strani frutti colorati e sconosciuti. Gialli, rossi , arancione, emanavano un’irresistibile attrazione. “Quelli non si toccano!” mio nonno , pazientemente mi aveva avvertito più volte osservando il mio piccolo naso che strusciava sull’orlo di legno e i miei occhi brillanti d’emozione.La proibizione funzionò d’incentivo alla decisione che andavo prendendo, facendo finta di niente. Bastò l’uscita del nonno sull’ aia davanti alla porta della nostra casa di campagna e , con gesto rapido ne afferrai uno e me lo infilai intero in bocca, richiudendola per nascondere il furto gioioso.Le lunghe spine polverose ed aguzze penetrarono nel palmo della mano ed in tutta la lingua e sul palato. Sputando e tossendo cominciai a urlare per il dolore intenso e inatteso e soprattutto sostitutivo d’un sapore atteso e pensato meraviglioso, in quanto proibito. Ci vollero tre giorni affinché il numero delle spine diminuisse dalla bocca e dalla mano, con continui strofinamenti d’una pezza di lana grezza.Oggi adoro i fichidindia ma so bene che prima occorre togliere la buccia spinosa.So anche che una preventiva sosta di qualche ora, in un recipiente pieno d’acqua, ammorbidisce le spine e ne diminuisce la forza .So che occorre usare una forchetta per tenere il frutto, e tagliare di netto le due estremità, e fare un taglio piuttosto profondo da una parte all’altra, e aprire la buccia spessa con pollice ed indice , e finalmente tirare su il frutto per poi mangiarlo, non subito ma, preferibilmente, rinfrescato da una mezz’oretta in frigorifero.


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15 marzo 2006

Qualcosa scricchiola



Occorre rinforzare la sedia che comincia a non farcela più a reggere un carico eccessivo. Eppure la persona è magra. La sua arroganza assume ogni giorno un maggiore peso e le esili zampe di legno sottoposte a sforzo , cigolano. Si alza e la sposta cercando sull’acciottolato davanti alla sua casa, nuovi equilibri. Le vicine sedute intorno a spennare polli ciondolanti, spargono per aria le penne dall’odore di morte. Ormai borbottano con voci lente e noiose, sempre le stesse storie, si annoiano. La magra creatura ripete all’infinito una litania , come un rosario, estenuante. Il cielo si annuvola, la pelle bianca delle galline spennacchiate si macchia di ombre bluastre. Cala la notte e rimangono tutte lì, ferme , immobili ad attendere l’alba silenziosa. Ora sono coperte di guazza, gli occhi spalancati, non sentono nulla. Eppure nella piazza del paese sono uscite le tarantolate , strisciano e si dimenano , le vesti ondeggiano, strappate da mani ad artiglio. Nessuno le guarda, nessuno . Sono pochi nella piazza, un vecchio e un bambino. Un cane passa veloce, inseguendo un cencio svolazzante. I tamburi, da qualche parte, fanno la loro apparizione lugubre, la mano che li batte produce una sonora ripetizione senza significato.


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03 marzo 2006

Phyllos e la storia di Medea


Sembra ormai provato che il bambù, quando fiorisce, esplica tale funzione nello stesso periodo sull’intero globo terrestre. Questa faccenda allenta lo stretto legame che si è sempre considerato, tra lo sviluppo delle piante ed il susseguirsi delle stagioni. E’ importante scoprire, quale cosa, geneticamente, lega tra loro l’intera specie di bambù in modo indipendente dal luogo in cui, lo splendido Hibanobambusa tranquillans Shiroshima se non piuttosto lo Shibataea Kumasasa, sono nati e cresciuti. Il Phyllostachys elegans è quello che si fa carico di mantenere alta, la statistica. Dopo la fioritura , peraltro , non gli accade come invece per molte altre specie, di cessare la sua crescita e in breve tempo concludere la sua vita , morire. Phillos sopravvive. Un accurato approfondimento della sua genetica va studiato. Io penso che sarà piuttosto difficile trovare una risposta al quesito proposto, la sopravvivenza di Phillos, in quanto è il metodo a contenere inefficacia. Si potranno analizzare infinite sequenze DNA e confrontare molecole e creare diagrammi spaziali a torta, ad anello, a gradini, si potranno avviare osservazioni analogiche e digitali all’infinito e con le strumentazioni migliorate dalle tecnologie più avanzate , ma sono sicuro che il metodo non porterà a soluzione. Un sentiero più faticoso , stretto e da sperimentare va senz’altro tentato. Phyllos ha una qualità che lo distingue e tale qualità è nata da un tempo lontanissimo. Se fiorisce dalla totalità delle gemme anche Phyllos è destinato a faticare per sopravvivere , dunque lo si deve potare a dovere, lasciando che, solo alcune gemme fioriscano, altre devono essere recise. Rimane ancora un mistero come questo avvenga in natura, senza l’intervento dell’uomo . Si potrebbe dunque concludere che in natura per sopravvivere Phyllos deve autopotarsi; cioè deve avere una tragica pazienza , come Medea. Ella deve uccidere per consegnare alla Storia una figura complessa e tragica di Donna. Medea stringe al petto i figli, sostiene un'aspra lotta con se stessa, ma non rinunzia alla sua disumana risoluzione. Qualcuno riferisce i raccapriccianti particolari della fine di Glauce e Creonte, vittime delle diaboliche fiamme scaturite dai magici doni nuziali. Medea esulta e passa alla seconda parte del suo piano: dall'interno della casa, le grida dei figli indicano che il crimine si sta concludendo. Accorso per salvarli, Giasone apprende l'ultimo atto di Medea. Mentre tenta di abbattere la grande porta, in alto, sul carro del Sole, gli appare la Donna che, stringendo al petto i cadaveri, vomita sull'uomo condanna e odio. A Giasone non resta che invocare Zeus a testimone delle efferatezze di Medea e maledire il proprio destino. Comunque per comprendere nella sua totalità e nella sua doppia definizione questo mistero occorrerà percorrere un’altra storia.

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16 febbraio 2006

la cioccolateria


Splendido luogo e tranquillo, una serata a chiacchierare con una bella signora e due bimbe Elene, davanti al una tazza di fumante cioccolata all'aroma d'arancia. La vera filosofia è tutta lì. Il dolce gusto si mescola ai pensieri di altri, che diventano nostri, lentamente. Grazie,bella signora!

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14 febbraio 2006

Il tango di Peter Pan


La musica del tango scivola, guizza, promette. Manca qualcosa, un silenzio, eccolo. Quale significato cerca di indicare ? la fisarmonica è il respiro del vivente e la chitarra un incantevole black hole, denso di antimateria, che precipita attratta da una forza primordiale. Il pianoforte sottolinea l’ansito, fermato da rapidi colpi di bacchetta. Avviene una mutazione: un uccello minuscolo volteggia fremendo sul cuore d’un fiore, parlano di nutrimento. Il puntuto becco arancione tocca e non tocca, attratto e respinto. La farfalla dalle ali multicolori s’incrocia con l’altra e formano una strana creatura con quattro petali, otto. Sono prigioniere del numero pari. Il pentagramma instaura rigore, salva al suo arrivo dispari un evento bloccato.Ieri su un banco, in classe, un libro impertinente (un saggio sulla scuola), è apparso improvviso. Nel deserto, punteggiato di vettori e schemi chiusi, è fiorito il cactus.I petali gialli sfondano gli occhi; qualcosa avviene.La lezione riprende nel solito caos, l’interpunzione inesatta; una disciplina, non mia, funziona da faro.La trave incastrata ha una sezione resistente, calcolabile, ed il processo s’innesta felicemente. Stanno prendendo nota della soluzione, come fosse unica; lo so già che sarà difficile comunicare la variabilità delle possibili alternative. Si fa strada nelle loro menti che questa evenienza può essere costruita.Anche Soffietti, quello coi pantaloni a livello posteriore bassissimo per mostrare le mutande firmate, quello che rifiutava qualunque relazione con il livello insegnamento/apprendimento, cura il suo quaderno di appunti, scrive chiaramente e viene a volere conferma se quello che ha scritto sia esatto. Io lo so che ha solamente copiato dal compagno più capace. Il suo chiedermi conferme contiene un metamessaggio: mi dice ‘sto cercando una strada’.Io devo essere forte; la fisarmonica mi avverte con note alte inquietanti ora aspre ora dolcissime e sottili. ‘Trasforma la frusta in bacchetta magica!’ mi dice ‘in nient’altro!’. Non devono volere bene a me, devono volere bene, al se stesso che apprende. Qui, l’insegnante deve sparire, deve ritrarsi. Avviene il sacro. Silenzio e stupore, assistendo al micromiracolo della creatura che muta. La lentezza è indispensabile. Un passo avanti e molti indietro. Una voce rassicura, è la mia ? è la sua? È la nostra, in una simulazione di amplesso, nella sua sequenza di assalto e cedimento. L’idea del tango viene prima del tango. Nella mente, esisteva un luogo del tango, una sua zona. Non importa localizzare dove, per ciascuno è diverso. ‘Varia col tempo e le stagioni?’ no non varia col tempo e le stagioni : si sposta intorno al suo territorio e traccia delle mappe continuamente mutanti. Sembra, immanente. L’ombra si muove e parla, sogghigna e ride: Peter Pan vive, altrove. Il mitico folletto canta una sua milonga, dai versi ottonari, volando sulla baia delle sirene che pizzicano conchiglie chitarre. Le femminili creature condannate al non sesso, strette nelle squame d’argento, fanno stridere le sonore conchiglie paranoiche ed il fanciullo costretto a sua volta a rimanere eternamente fanciullo cerca gli ottonari, prigioniero anch’esso dei numeri pari. La sua ombra intanto sogna parole nuove : forse Milonga era Kimbunda una regina africana…..

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la scalata di monte Cuccio

Domenica notte, buio pesto. Volevo rimanere ancora a dormire tra le pesanti coperte nere; niente, venivo bruscamente tirato giù dal letto, nonostante strepiti, pianti e proteste.
Nel silenzio si compiva il rito della vestizione e dovevo mettere ai piedi due paia di calze di lana e i pesanti scarponi unti di grasso, puzzolente. Zaino di tela militare verde grigio insaccato di maglioni e misteriosi cartocci, borraccia col tappo di metallo colla catenella e frignando, avrò avuto sei o sette anni, trottavo malvolentieri dietro i genitori frettolosi. Strade deserte, cielo stellato e muso incavolato, a piedi raggiungevamo la stazione del pullman per San Martino , nella piazzetta dietro il teatro Massimo. Si aspettava; il mezzo pubblico, uno scassume blu, arrivava dopo di noi. Mio padre fumava la sua serraglio, una sigaretta piatta senza filtro.
L’autista si chiamava Dante e lo conoscevamo bene. Salivamo e partivamo: unici occupanti delle lunghe file di posti. Era la prima corsa.
Ore quattro. Mio padre voleva arrivare presto, il primo. Un’ora di viaggio, Boccadifalco , Monreale e finalmente San Martino. Nebbia, freddo. Neanche il negozietto dove compravamo pane e mortadella era aperto. Un’altra sospensione, seduti sulle panche di cemento, ghiacciate.
Finalmente arrivava una donnina incappottata che apriva la piccola porta e ci faceva entrare nel negozio buio. Accendeva una lampada dalla luce fioca e dietro al bancone affettava mortadella e pane. Prima colazione, mordevo con rabbia e fame quel pane raffermo e lentamente mi riconciliavo col mondo infame.
Il cielo si schiariva tra le nuvole dense e spuntava qualcuno sulla piazza del paese.
All’abbeveratoio delle mucche, dietro il negozio, un getto d’acqua ghiacciata spegneva la mia sete e andavo di nuovo a sedermi, pensando alle fatiche che mi avrebbero raggiunto durante la giornata. Arrivava il momento, al comando di mio padre, di percorrere la breve salita fino alla villetta dello zio Ninno Meli. Scalini alti , abbaiare dei cani e ancora attesa, nel giardino con la vasca di cemento piena d’acqua verdastra. Quella domenica dovevamo scalare monte Cuccio, altezza 1600 metri.

Zio Ninno scendeva per primo, seguito dai tre figli, Ferdinando , il primogenito, Elisabetta e Maria Teresa. Zia Carlotta ci salutava dalla finestra coi gerani rossi. Doveva sbrigare in casa e in pollaio.
Zio Ninno aveva portato con sé quella contadina bergamasca fino a Palermo. Avevano messo su famiglia, senza sposarsi, e i Meli, di nobili e abateschi antenati, non avevano accettato quella bella signora dagli occhi azzurri e lo guance rosate, neanche quando erano nati i figli, tutti con gli occhi azzurri e le gote rosse e la carnagione chiara. Gente del nord, da non fidarsi. Zio Ninno era un omone, alto e immenso, con la voce tonante e fumava la pipa. Ne aveva una gran collezione sulla mensola dello sparecchiatavola, nella stanza da pranzo. Prima della guerra, era stato compagno di avventure di mio padre ed erano grandi amici. Forse neanche mio padre amava la chiesa, con orrore di mia madre, beghina già a quei tempi. La piccola comitiva si avviava verso l’alto a passo lento. Le stradine presto si trasformavano in sentieri fino alla prima sosta dopo un’ ora di cammino. L’acqua sgorgava direttamente da una roccia liscia senza neanche una cannella, che spuntò dopo pochi anni. Riempivamo le borracce, ognuno la sua; si doveva bere solo la provvista personale, pochissime gocce per volta. La salita faticosa sarebbe durata quattro ore, gambe indolenzite , una sosta ogni ora, di cinque minuti, una sorsata e ricominciare in fila indiana. Ero sempre l’ultimo, tra le risata di tutti, specialmente di mio padre che era sempre il primo.
Quella volta ottenni di stare sulle sue spalle per qualche minuto, quando a metà del tragitto mi ero buttato seduto sulle rocce e non volevo più muovermi. Ora avevamo iniziato il sentiero di pendenza lieve, a zig zag, la pineta era sparita da tempo, intorno pietrisco e nient’altro, il sole picchiava forte. Neanche un filo d’erba, neanche un fiore. I piedi bollivano per il calore accumulato e per la stanchezza, ma bisognava andare avanti. Silenzio, il fiato serviva per faticare la lenta risalita del fianco della montagna. “Respira, respira” diceva mio padre. Io pensavo: ma questo è proprio matto e cosa sto facendo, sto respirando o no?
Elisabetta e Maria Teresa ogni tanto mi rivolgevano la parola per consolare questo ragazzino recalcitrante obbligato a una tortura ripetuta. Sognavo di arrivare e togliermi gli scarponi per far riposare i piedi doloranti. Finalmente si arrivava in cima e non avevo occhi per il panorama, sicuramente meraviglioso.
Avevo solo fame e nella sosta svitavo il coperchio del recipiente d’alluminio e m’ingozzavo degli ‘ammataffati’ e orribili anelletti col ragù preparati al mattino da mia madre, con rabbia.
Misteriosi sorrisi, per me incomprensibili. Durava poco, la sosta per il cibo. Una bevuta dalla borraccia era un’altra sofferenza: l’acqua aveva preso amaro sapore d’alluminio, come gli anelletti. La discesa, per fortuna, avveniva in un tempo minore, un paio d’ore. Di nuovo la casa di zio Ninno, accogliente e serena. La cena tutti insieme nella grande sala da pranzo, polenta e salsicce al sugo. Ferdinando si spalmava sul naso rossiccio, screpolato dal sole, una pomata, le ragazze parlottavano nella loro stanza, io leggevo un “Topolino”. I saluti, le chiacchiere, il pullman e a casa a dormire, triste e stanco. Un’altra domenica, passata senza gioia. La mattina dopo, mi attendeva un altro risveglio immusonito e la scuola. Senza riposo, senza sosta. Senza significato.
Anni dopo, Ferdinando, lo scalatore di montagne, cominciò ad amare il mare e nei suoi giorni di riposo dal lavoro d’avvocato, faceva immersioni da sub. Aveva tradito la montagna? Non lo so. La moglie sulla barca lo attese a lungo, quella volta. Se l’era preso il mare.
Lo trovarono, incastrato con la bombola dell’ossigeno, in una stretta fenditura tra le rocce. Aveva forse inseguito una grande cernia luccicante o l’ossigeno lo aveva addormentato. Chissà. Zio Ninno non volle mai accettare che quel suo figlio maschio, dal corpo muscoloso, fosse sparito nel mondo della morte. Zia Carlotta, che ci raccontava della silenziosa disperazione del marito, precipitato nell’abisso dei sensi di colpa, lo sentiva ancora vivo anche lei. Al mattino presto, udiva i passi di Ferdinando per le scale ed il suo preparare il pastone per i polli. Ogni mattina. Io ricordo solo che Ferdinando sapeva tutto sulle costellazioni e mi raccontava dell’orsa maggiore e di Orione e della stella più brillante che sorge per prima nel cielo notturno e non è una stella ma il pianeta Venere. Aveva gli occhi azzurri, Ferdinando, ed era un bravo ragazzo.

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