1. Il
titolo
2. La
mia tumulazione
3. Palermo
- Trinacria
- Caltanissetta
- Il cugino Angelino
- Pane e uova a occhio di bue
- La rosa di zio Ugo
- Melata
- Amalia
- Lettera a un papà
- Un Natale anni 60
- Un Natale anni 90
- Lettera ad Aldo
- Quando sono nato
- Il custode
- Prima che giunga la notte
- Titti
19. Il
bambino nato domani
- Zia Mariolina
- Pane e panelle
22. Natale
in famiglia 2005
23. Il
piccolo cuoco
24. La
scalata di monte Cuccio
25. Gli
spaghetti di zio Ninno
26. Artemia
27. La professoressa Gagliano
27. La professoressa Gagliano
Il titolo
Perché no? La
scrittura come cura ed antidoto ad una giornata noiosa. Prendere coscienza:
cosa fare e su che binario?
Ecco arriva veloce uno strano, immenso, nero e lunghissimo scatolone di
ferro su ruote enormi, azionate da barre lunghe e sagomate, le bielle. In alto
sbuffi di vapore, bianco sul cielo azzurro. Scelgo la strada ferrata dei segni
e delle parole. Io, treno a vapore. Io, locomotiva e vagoni.
Chiedo: voglio un quintale di
gelati di crema e d’uranio radioattivo, pagherò domani, anzi qualcuno pagherà le
mie voglie e il mio lavoro sarà soltanto desiderare e poi essere tumulato in
una bara di zinco, no, almeno di legno, chiaro, lucidato.
Splendido, continuo sfilare delle linee più spesse e più scure, su un
piano beige chiaro come i centrini ad uncinetto, fatti col cotone ecrù. Nessun
significato apparente, rende faticoso cercare strade da segnare. Valore
scatenante della memoria, lasciare aperto il rubinetto dell’antico gioco del
lasciarsi andare e credere giusti i risultati dell’inconscio. Fare venire a
galla parole e colori e suoni e luci e odori per cominciare a mettere le
fondamenta di una nuova futura illusione. Scrivo dunque esisto! Contare righe e
parole questo è essenziale, il significato no. Neanche sarà sequenziale.
Dove la spaziatura tra lettere o
parole lascia bianco il foglio lì c’è un sentiero da fare percorrere alla
fantasia, all’errore, alla fatica del tentativo.
La mia
tumulazione
La mia tumulazione sarà piuttosto difficoltosa e buffa. Pensa un
treno rosa, obeso e molle e avvolto di lastre di pancetta affumicata, il tutto
da spedire direttamente ai popoli affamati, come elemento base per tutti quei
gialli e rossi intrugli fumanti e piccanti in vendita nei mercati esotici,
insieme alle panelle e alle crocchette e agli sgombri arrostiti.
Io, a pezzetti, in un laghetto di peperoni e cipolle e
olio fritto e rifritto, da anni. La gente va e viene tutto intorno: chi ne
compra un cartoccio, chi tanto, chi ne assaggia un briciolo, tutti felici.
La chiave della felicità, la chiave dell’Europa,
sai cos’è? E’ la città porta del mediterraneo; è la città più amata del mondo;
è la città che era un giardino d’aranci ed ora è un giardino di palazzi e di
quartieri e di case e d’esseri umani, i migliori del mondo perché odorano di
sudore ascellare e di pane bianco appena sfornato e d’amore appena fatto. L’odore
acre dell’uomo e della donna abbandonati sulla sabbia calda della
spiaggia. Felici, con le mani che
s'intrecciano e gli occhi al cielo fresco e azzurro.
La mia terra
è la mia tomba, la mia città è la mia bara felice, i miei ricordi riempiranno
la terra di infiniti piccoli semi grassi. Mangerò carrube nere con la bocca di
teschio e nelle orbite vuote brillerà il sapore aspro e dolce e scivoleranno i
carati lisci e duri e le cavità delle narici avrò piene di secco giallo delle
‘restucce’ di paglia dopo la mietitura di giugno.
L’altalena
dalle lunghe corde oscillerà lentamente avanti e indietro vuota anch’essa e il
grosso ramo del vecchio mandorlo cigolerà per niente su e giù appeso al cielo
azzurro silenziosamente…silenziosamente, neanche lo stridio dei grilli a
migliaia…niente…niente…
Palermo
Palermo: ti raggiungo, io stesso strada ferrata, io
stesso treno di me stesso, intreccio di Grecia e di Africa senza saperlo. Una
paralisi come una malattia polmonare mi tiene chiuso, prigioniero davanti al
teleschermo ad ingozzarmi di racconti d’oltreoceano violenti e sanguinari. Li,
la gente uccide o rapisce o froda con più stile, con fantasia tutta trine e,
maggiore è l’entità del delitto, più sicuri si è di farla franca.
Sono a metà pagina e sono già stanco e asciutto; no, vai avanti forza e
coraggio, altrimenti la ginnastica non avrà alcun effetto per il tuo cervello atrofizzato.
Trent’anni sono trascorsi o poco meno, ma sono stanco continuerò domani
cancellando. Faticoso, vero? Sì, notevolmente.
Trinacria
Trovare parole
che siano collegate a ricordi non è facile. Si cerca sempre di rispettare
regole o cose del genere, io, regole non ne conosco e voglio andare avanti così
come viene, soltanto con un minimo di gioia nel trovare parole. Trinacria,
un’isola a tre pizzi, che a tenerla calda ci pensa un vulcano e una marea di
gente sudata. In quel vulcano c’è un dio sempre incazzato che, giorno e notte
(lì sotto è sempre buio) con una mazza enorme su un’incudine ancora più grande
rovescia colpi su colpi per rinforzare uno spadone grandissimo e quando ne ha
finito uno, ne fa un altro. Fa un rumore pazzesco, ne sanno qualcosa quelli di Bronte.
Vi prego non dimenticatevi di Bronte. La moglie è sempre iperincazzata perché
lui è sempre indaffarato e non se la scopa quasi mai, la dea allora fa un
fischio e arriva un pezzo di dio bellissimo muscolosissimo e dotatissimo che
cornifica l’altro che lavora sempre.
Questi tre
sono Vulcano Venere e Marte. Prima lì era la Magna Grecia che
sarebbe a dire che quei tre avevano altri nomi tutto qua: Efesto, Afrodite e
Ares.
Veramente il professor Bellafiore
di storia dell’arte, l’unico che mi ricordo dei miei sconclusionati anni di
scuola (un liceo classico per famiglie per bene, poi ce n’era un altro ma era
per le famiglie basse), insomma il professore aveva la moglie che faceva la
segretaria alla biblioteca americana e ci andavamo ma era tutto scritto in
un’altra lingua e l’ingresso era bello e dentro tutto pulito e senza polvere.
Bellafiore ci fece amare la storia dell’arte. Agrigento e la valle dei templi
erano la Magna Grecia
ma anche Selinunte. Eravamo una colonia greca, pensa che meraviglia, ma no poi
non si parlò né si scrisse in greco ma in latino e molto più tardi in italiano.
Io lo dico sempre che le vere rivoluzioni sono quelle delle parole, oggi hanno
vinto più che mai gli inglesoamericani, vera luce del mondo.
Nella biblioteca americana scoprii Walt Whitmann lo scrittore pioniere,
che descriveva i falli alzati nel vento delle praterie da cui sgorga il seme
bianco del futuro che odora d’agrodolce e testosterone.
Caltanissetta
Io sono nato
in un luogo di favola al centro dell’isola. Qui un sultano dal viso sereno
fondò un castello Qal’at dov’era una splendida oasi, Nissa. L’odorosa di caniglia, di galline e di terraglie,
l’attraversata da pecore bianche e nere, che lasciano al passaggio qualcosa di
simile a parole: tante palline nere e morbide. Qal’at Nissa dagli ulivi bassi
con le foglie piccole argentate, l’altopiano con un monte al centro e la valle
lunga sotto, e intorno piccoli laghi d’oro e immense distese di alte spighe di
grano, grano duro e più lontano ancora le solfatare con le collinette gialle
dal sapore aspro.
Splendide giornate assolate e solitarie a studiare formiche nere e
formicai, buchi tra i solchi della terra scura spaccata dall’arsura e le cicale
e il calore assordante e i giardini di fichidindia spinosi e polverosi, i cento
mandorli ed l’immenso carrubo nero, lassù a mezza collina.
Il cugino Angelino
Il cugino
Angelino, un tipo secco con gli zigomi puntuti e dalla faccia quasi nera,
malarica, che occorreva odiare, non capivo perché. Ora so per certo che
bisognerebbe odiare tutti e di tutti diffidare, “taci il nemico ti ascolta”,
“si vis pacem para bellum”. Ventennio lontano. Il cugino molto raramente
appariva dietro i vetri della vecchia casa e spariva per anni. Duemila anni di
gesùcristo e molto meno anni di Che non ci hanno ancora insegnato nulla, le
banche e i dollari o i franchi svizzeri sono sempre i più forti.
Pane e uovo ad
occhio di bue
Acuto acre
odore spiritiera fornello alto di ferro e una padellina nera, l’olio sfrigola,
olio delle nostre olive piccole e scure.
Plaf l’uovo tuffato nell’olio bollente; profumo, come un
pugno allo stomaco, quanta fame, tutti i giorni. Uovo fresco, desiderio di
masticare un buon sapore, no, non è per te è per un altro. Era per zio, figlio
di nonna, e a me un pezzo di pane e un’oliva. L’ho finita, ma come ti sei
finita un'oliva così subito? Che umiliazione. Sei grasso devi mangiare poco.
Che gioia, nonna,
quando facevi quel pane in casa, quelle forme bianche tonde e grandi col segno
particolare sopra (una specie di croce). Veniva un ragazzetto del forno più su
di Via Palmintelli, che erano forse piccoli palmenti (macine da mulino), poi
vai tu a riprenderli cotti, ma sempre io devo andare e lui no, mio zio, e
litigavamo sempre. Io ero un intruso, abbandonato dai miei genitori.
Aveva ragione, che
ci facevo io tutte le estati a casa sua? In un’altra città lontana dalla mia
che per arrivarci mi mettevano sul treno come un pacco affidato al bigliettaio.
Contavo le campagne riarse e le curve e le gallerie, ormai tutte le sapevo,
avevo cinque e sei e sette e otto e nove anni, e arrivavo con le guance e la
fronte nere di fuliggine.
Era bello andare
dai nonni, si, ma perchè tutte le estati e per tutta una lunghissima estate.
Come facevo a conoscere i miei genitori e mio padre, che lo vedevo solo la sera
e sempre a litigare ferocemente, cominciava col mordesi le mani a sangue e poi
si strappava i capelli e batteva la testa sul muro e si dava schiaffi su quella
faccia che si faceva rossa: guadagni poco urlava mia madre e lui si umiliava e
forse avrebbe voluto più rispetto ma quella niente guadagni meno di me porto
avanti io la casa sei un miserabile e per tre giorni non si parlavano che
tramite me: dì a tua madre che… Dì a tuo padre che… Dimenticare era facile,
bastava mangiare, sì mangiare, unica felicità. Appagamento immediato. Più
mangiavo e più ero nella curiosità di tutti e l’infelicità aumentava e ancora a
mangiare e pane e pasta e olio e pane e pasta e olio.
Riportare le grandi pagnotte odorose e calde
alla nonna e averne in cambio un bel pezzo aperto in mezzo e un filo d’olio e
un pizzico di sale e, raramente, qualche scaglia di formaggio pecorino. Gli
altri giorni il pane sarebbe divenuto più asciutto ma sempre buono, fino alla
successiva avventura del pane. Il
portiere viveva in una porticina in cima a una scaletta di pochi gradini nelle
palazzine INCIS, i nonni al pianterreno e le finestre erano tutte sul porticato
d’ingresso. L’appartamento di fronte era del giudice Argento, una casa grande e
pulita ordinata, ma era vietato sia a me sia alla nonna di starci troppo. La
porta di casa dei nonni era sempre aperta, bastava una spallata e si apriva.
Magico mondo libero. Due libroni dei Topolino anteguerra dal numero uno,
formato giornale. Fu lì che sprofondavo nei sogni per ore.
La rosa di zio Ugo
Su una lastra d’ardesia larga poco più di una mano tutta
aperta, c’è una rosa bianca dipinta ad olio.
Le pennellate furono leggere e la
sottigliezza estrema del colore ne rivela l’essenzialità.
Il bianco niveo degli orli
scivola verso l’interno in un tepore incarnato che arrossisce.
Essa sta sola con i petali già
schiusi, nella sua più fulgida maturità; riposa su due sottilissimi tralci,
sostenuta da un terzo. Poche le foglie, minute, di un verde ombroso; un solo
bocciolo sospeso sullo sfondo tutto grigio di pioggia e di vento.
Il corpo della rosa è un blocco
di tempo, il tempo di una vita vi è tutto impresso: dal nucleo centrale quasi
ardente, fetale, indifeso, si passa agli orli bianchi, cristallini, duri,
intransigenti dei petali di mezzo ai due petali esterni, in cui il bianco
diventa glauco; da cataratta precipita in un pallore quasi verde, lì alla base,
dove il petalo ancora sta, abbrancato alla sommità del gambo.
Un padre e una madre di ghiaccio, gelidi e inerti. Sordi a qualunque
grido di paura di un cucciolo d’animale abbandonato tra i secchi della spazzatura.
“E’ lì che ti ho trovato” mi gridava sorridendo ogni giorno al mio ritorno da
scuola: fiocco blu sporco e gualcito, scarpe rotte e cartella sformata. I soldi
si dovevano conservare ed accumulare per altre cose, ad esempio per comprare la
casa. Per strada i cari compagni delle elementari mi circondavano schiamazzando
e sussurravano “Sporco, pacchione!” Li odiavo tutti, se avessi potuto li avrei
lacerati con le mie stesse mani e sparso sui marciapiedi i brani sanguinolenti,
ai cani.
Invece tacevo, erano tanti e le loro parole facevano centro, sempre.
Melata
Arrivare alla stazione di San Cataldo era sempre una gioia totale.
Io, sudato e
fuligginoso e i pantaloncini corti e i sandali marroni, e la nonna con un
sorriso dolcissimo ed il porro peloso sulla guancia, carichi di pacchi e
pacchetti stretti con lo spago giallo, afferrati alle lunghe e nere maniglie
metalliche delle porte non ancora spalancate, attendevamo la fine del lungo
fischio dei freni. Forse non si può raccontare ma solo ricordare senza parole,
i suoni e gli odori acri presenti. Non è più la stessa cosa di allora:
millenovecentocinquanta; i vapori bianchi e grigi della locomotiva e i due
scalini altissimi fino alla pietra della banchina e la stazione, una casetta di
pietra e due stanzoni d'attesa; dietro, una campagna deserta color pietra
chiara. La fontana di ferro nero aveva una sbarra e su e giù e su e giù e ancora
e ancora e finalmente l'acqua scorre a getto dal grosso tubo curvo:
trasparente, fresca, tanta, in un getto cristallino e si beve e poi ci si lava
il nero del fumo dalla faccia di quando mi affacciavo dai finestrini del treno
in corsa ad occhi sgranati e ridenti per controllare ancora le curve e i
rettilinei del percorso. I binari, lunghissime barre di ferro nero sulle
traversine di legno e la campagna, arsa e secca, ma assolata e coperta dal
cielo celeste dappertutto. Poi si camminava un passo dopo l’altro, coi pacchi
sempre più pesanti, una salita, una curva, una piccola cappella con la madonna
sbiadita e lo stradone e ancora una faticosa stradella. Intorno a noi, una
campagna deserta e rada di alberelli e finalmente il curvone e la stradina
terrosa e ai lati continuamente muriccioli di pietre asciutte una sull'altra,
quelle di sopra qualche volta cadute. Il primo verde che si vedeva erano i
cespugli bassi e con le foglioline tonde e scure, i capperi coi fiori bianchi
pieni di fili chiari e tutti polverosi della stradina. Ci si avvicinava sempre
di più alla casetta a metà collina. Tutte le persone, scese dal treno con noi,
erano sparite da tempo, a gruppi si erano avviate ciascuno alla sua casa. La stradella
era deserta: io la nonna e i pacchetti con lo spago giallo. Nonna Giuseppina
aveva sempre un sorriso tenero e forse remissivo e i capelli lisci, non sudava
mai, lei. Il berretto rosso del capostazione, la paletta per segnalare la
partenza, il fischietto di metallo lucido tra le labbra, tutto finito, tutto
lasciato alle spalle. Io correvo e la nonna s’innervosiva: aspettami, non
andare avanti.
Quanta pazienza nonna per questo nipote che
ogni estate diventava per giorni e giorni, settimane e mesi un ospite figlio e
avevi un altro figlio, mio zio, ancora bambino come me, pochi anni di più.
Quanti figli, avevi, nonna? E quanti non avevi più. Tanti vivi, uno morto
piccolo e forse un altro, lo avrei saputo anni dopo ma ora i capperi e la
stradina da finire una curva ancora ed ecco la collina: il viottolo stretto e
ripido, tutto anse. Ognuna, nota: un formicaio lì, una roccia enorme lì, ed
ecco la sentinella. Un gelso basso dai frutti rossi aspri e dolci col succo che
si schiaccia sulle gote e sembra sangue (ma vero sai?) le foglie sono ruvide,
seghettate e scurissime, il tronco, come un grosso palo bruno dritto e liscio.
La casa, che non si doveva guardare, di lato la scaletta di pietra e calcinacci
con sotto il pollaio e dietro più su la ‘ittina’ e, finalmente la porticina di
legno colla serratura di ferro e il chiavone nero e il mandorlo lì davanti ad
aspettarmi col ramo lungo su cui legavamo le corde dell’altalena. Era la prima
cosa che volevo: quella tavoletta di legno rinforzato e le corde e via su e
giù, quante volte, e il ramo cigolava ma non si lagnava. Subito i sandali si
coprivano di polvere grigia. Quasi nel silenzio, sicuramente in solitudine.
Amalia
La casa di zia Amalia, moglie di zio Totò
e madre di Pippo Ballotta e Marilù Ballotta, aveva i pavimenti di ceramica ed
era odorosa di pulito con alti mobili scuri ed eleganti, tanti libri e un
salotto misterioso dove non si entrava mai. Zia Amalia mi badava spesso quando
ero piccolo tipo attorno ai quattro cinque anni e mi cantava e mi cullava tra
le sue braccia enormi e morbide, sul suo petto immenso e mi diceva: vai da
nonna Fina a farti dare il trucco. Io andavo da nonna Fina che abitava due
piani sotto, bastava scendere le scale ma io avevo paura degli scarafaggi, ce
n’erano di enormi ma erano di più a casa mia, nel palazzo dietro l’angolo.
Aspettavo, pazientemente, dopo avere bussato alla porta di legno scuro, mi
facevano entrare e mi sedevo e aspettavo pazientemente che
qualcuno mi desse il trucco; ma il tempo
passava e nessuno mi dava niente. Io dicevo: “Zia Amalia vuole il trucco…
Quello rosso per la bocca”, ma, nonna Fina, niente. Mi spazientivo e, orrore
degli orrori, venivo mandato nello studio silenzioso di nonno Fifì. Lui stava
seduto con la papalina blu a ghirigori di fili dorati, e io, sopra un sedione
davanti alla scrivania, dovevo stare muto, totalmente. Mi perdevo allora in un
fermacarte davanti al mio naso: una bolla schiacciata di cristallo, con dentro
paesi, città, universi, rossi e blu, solitari. Macchie di colore. Se fiatavo, o
stavo per diventare irrequieto il vecchietto, immerso nei suoi conteggi,
borbottava:”Zittiti, camurrusu!”. Zia Amalia, aveva un enorme gatto rossiccio
di nome Maligno, non aveva l’età giusta del marito, era più vecchia di dieci
anni. Anche Pippo avrebbe sposato una collega torinese, alta e bionda, più
vecchia di dieci anni, Marù. E non hanno mai avuto figli, lei trascorreva tutto
il tempo all’istituto di bellezza a tirarsi la pelle della faccia, non faceva
altro ma giocava in borsa. Marù è morta ed ora Pippo è tornato a Palermo e sta
in un ospizio e non se la passa tanto bene, anche Marilù, che abita da sola,
stava per morire, ma ora sta meglio. I due fratelli non vogliono abitare
insieme perché si vogliono troppo bene. Cantami Amalia, chiedevo supplicando ed
era dolcissimo sentire il suo canto perché non mi aveva mai né cantato né
cullato nessuno. Notizia di qualche ora fa: Marilù conclude la sua solitaria
vita terrena allietata solo dai famosi Saladino, famiglia perennemente confusa
nella mia infanzia sia con il “feroce saladino” (figurina introvabile dei dadi
da brodo) sia con il fortunato Aladino, ritrovatore di tesori inestimabili.
Questi parenti erano molto ricchi e una volta, Marilù ci fece vedere a me e a
mia moglie una conchiglia con un bassorilievo sacro tutto in madreperla,
antico.
Zia Amalia e i suoi figli non ci
sono più, anche Pippo è morto per un collasso diabetico. Mi dava certe pacche
fortissime sulle cosce scoperte dai pantaloncini e tutti ridevano al mio
lamentarmi. Facevano proprio male.
Lettera
ad un papà sconosciuto
Caro papà la notizia mi è
giunta solo in questi giorni e continuo a non capire le feroci litigate fra te
e la mamma, facce stravolte e urla, in cui sono cresciuto, male, sfiduciato e
senza ambizioni, senza mai credere in me stesso. Eppure la casa di Via Canonico
Rotolo l’avete comprata con un grosso anticipo che erano tutti soldi tuoi della
guerra e della prigionia ed allora perché le liti a fine mese con uno stipendio
misero diceva la mamma ed io non ti stimavo per niente e tu ti distruggevi la
faccia a schiaffi e ti mordevi le mani a sangue ed io come potevo rispettare
uno che la mamma non rispettava mai. Adesso ho cinquantacinque anni e tu non ci
sei più da quasi tre anni e non ci siamo mai né capiti né amati. Emerge uno
strano ricordo, la voce di mia madre che dice : ho dovuto proteggerti dal suo
amore eccessivo . Cara la mia mamma. Mi hai protetto tanto bene che non mi è
arrivato neanche un filo di calore e sono cresciuto gelido e diverso, incapace
di vero amore io pure. Quanta confusione .
Oggi è l’anniversario della tua “Dipartita” avvenuta
quattro anni fa 1996, ti scrivo una lettera ovunque tu sia e qualunque cosa tu
sia divenuto.
Mamma spera ancora nel miracolo ed io cerco di
assecondarla ma ciò che non si è
costruito in tempo, quando si doveva , non si riesce mai più a rabberciarlo.
Io ricordo quelle poche volte che ti chiedevo di
rimboccarmi le coperte e mi veniva un brivido alla tua vicinanza, o ancora
prima quando sul lato nascosto del seggiolone facevi apparire per magia un
piccolo dolce e ancora la scatola di legni piatti colorati di giallo e rosso e
verde e blu a rombi e quadrati e rettangoli. Giocavo per ore, da solo, sul
pavimento della stanza da pranzo; col raggio di sole e il pulviscolo dorato
galleggiante per aria ed era un incanto silenzioso. Ricordo.
Quando tornavi, cantando, salendo le scale, le magiche
parole della fata di Cenerentola ed eri felice. Durava poco. C’era forse un
destino che aveva deciso per noi solo dolore. Oggi alla messa, mamma era
elegantissima, così mi dice Mari. Più tardi mi ha telefonato per sapere se la
rosa al cimitero l’avessi portata io. Ma io non credo che esista un altro luogo
oltre quello in cui viviamo. Ciao papà ci risentiamo un'altra volta.
Un Natale anni 60
Altro che
neve! Da noi dicembre arrivava con un po’ di fresco e basta: il cielo era
sempre azzurro, poche le giornate di pioggia ed il cappotto poteva ancora
aspettare chiuso nel buio dell’armadio. A scuola c’era come un lieve brusio in
più, stava per arrivare la sospirata vacanza lunga quella che ogni anno ci
portava all’anno nuovo.
Trascorrevamo quelle feste a Caltanissetta con i nonni;
io, ospite dei Pinelli, e papà e mamma dai nonni, per Natale. Ma la notte
dell’ultimo giorno dell’anno si passava con i vicini di casa, a Palermo. Tutto
il palazzo entrava in ebollizione: c’era da definire in quale casa ci saremmo
riuniti e il menu. Precedevano acquisti e scelte, lunghe trattative tra la
signora Iodice e la signora Rossitto, tra mia madre e la signora Leto e, prima
che morisse di cancro, anche la signora Le Moli. Un trabiccolo a motore portava
frutta e verdura dallo scaro, non molto lontano da casa; seguiva la
divisione, la pesata, con i vari gruppi familiari che avevano partecipato.
Veniva lasciata la quantità che sarebbe servita per fare un’enorme macedonia
per il pranzo di natale. I tortellini da fare in brodo venivano acquistati da
qualcun altro, non so chi, la carne macinata, di maiale, per fare delle
criticatissime salsicce, compito della mia brava mamma, la compravo io dal
macellaio di Via Libertà. Il lambrusco e la frutta secca era roba da uomini:
sicuramente il baffuto zio Leopoldo Jodice, professore di educazione fisica e
tabaccaio ed altro. La preparazione della macedonia era uno dei momenti più
simpatici, eravamo in quattro o cinque tra ragazzi e ragazze a lavare la frutta
e poi a sbucciarla e tagliarla in piccoli pezzi: Silvana dai capelli castani e
gli occhi un po’ sporgenti da folle, Gabriella mora con gli occhi grandi e
belli, Eliana dallo sguardo scuro e le labbra sottili ,io il solito ciccione
sempre pronto a dire qualche spiritosata, Claudio lungo lungo con gli occhi
tristi ma un sorriso dolce, Letizia rotondetta e silenziosa. Enzo, Fulvio,
Maria Teresa più grandi di noi ci guardavano da lontano e poi sparivano. Fulvio
era già innamorato di Maria Teresa, ma , bassetto e rossiccio come era, non
aveva alcuna speranza e poi lei, bellissima, era già la fidanzata di Fabio
Rocca , ( poi sposò un altro in quattro e quattr’otto e sparì nella lontana
Chieti ). A me piaceva Gabriella ma sposò Enzo. Iniziavamo a sbucciare le
arance e poi le mele e le pere, poi tagliuzzavamo i pezzi grossi in pezzi
piccolissimi e le mani colavano di sugo di pera di arancia di mela. Alla fine
irroravamo di succo di limone e alla fine tanto zucchero bianco e scivoloso e
si mescolava. In segreto zia Franca aggiungeva il liquore: maraschino profumato
e oleoso. Veniva poi il rito chiassoso delle sedie e dei tavoli portati dalle
case altrui e l’apparecchiata del lungo tavolone che doveva contenere 6 Iodice
3 Davì 4 Rossitto 4 Leto 2 Le Moli 3 Santucci e poi altri ancora. Eravamo a
volte 20, a volte 22 dipendeva dagli anni. Tovaglie, piatti, posate, tovaglioli
ogni famiglia portava i suoi. I segnaposti li preparavo io. Ritagliavo da un
cartoncino bianco tanti rettangoli e scrivevo i nomi e facevo accanto al nome
un disegno semplice : una candela accesa, una foglia di pungitopo con le
palline rosse , un nastro annodato a scocca tutto rosso , una palla di natale
colorata , un angelo con l’aureola e le mani giunte e la bocca aperta in un O
di canto ,un piccolo albero di Natale tutto verde. Una volta misi i tovaglioli
bianchi a forma di grosse candele e sopra un cartoncino ritagliato a fiammella,
colorata di rosso al bordo e di giallo al cuore. Quando alla fine, il lungo
tavolo era apparecchiato e decorato era proprio una meraviglia a vedersi nel
salone di casa nostra che era proprio grande perché avevamo fatto abbattere una
parete anzi due per fare un grande ambiente a forma di elle.
Un Natale anni 90
“Trascorreremo
il Natale a Dobbiaco e ci resteremo fino alla notte di fine d’anno e anche Capodanno
ed oltre, con i nostri amici di sempre, auguri e bacioni a tutti voi, ciao”.
Strana telefonata quella degli zii questo fine ’98, quando mai telefonarmi loro
per primi e così in anticipo rispetto alle feste di fine d’anno. Gli zii
nordici, nel contesto familiare della mastodontica e granitica famiglia della
nonna, i potenti e ricchissimi Amico di Caltanissetta, risultavano sicuramente
in prima posizione a causa della loro meravigliosa e immensa villa (con riserva
di caccia! ), sita in quel di San Quirino, provincia di Pordenone, nei pressi
della base aerea missilistica americana
di Aviano. Zio Franco attempato ma arzillo pilota spericolato di un camper (che
dopo c’è solo quello degli sceicchi arabi), era stato un bancario, palermitano
per poco, genovese per tanti anni e poi pordenonese, a poco dalla pensione,
adesso con villa e connesso amico generale e annuale riunione con compagni di
scuola. La ricchezza va mostrata! Ora con cane Brick tanto abbaiante e
sostitutivo dei nipoti allontanati dalla nuora Adriana che gli aveva rubato il
figlio unico Sergio, mio cugino dai lavori tanto misteriosi quanto poco
duraturi. Zia Titi, la zia diretta compagna di una mia grande sventura quando
avevo pochi anni e ci ustionammo insieme, bruciature di terzo grado. Cattivo,
cattivo, io che, tra le sue braccia, a due anni e sedici anni lei, mi buttai
addosso un pentolone di acqua bollente.
Cattivo cattivo io io io sempre io cattivo. Vecchia, rugosa e secca,
denominata dal povero marito adolfetta, la zia. Avevano trascorso il giorno di
natale soli perché i genitori di Adriana stavano male poverini, questi
fruttaroli che gli avevano rubato il figlio d’oro. Zia Mariolina questa estate
e anche in autunno era stata molto malata a causa di una potente discopatia che
la costringeva a letto per giorni e giorni: massaggi e pillole e riposo l’hanno
quasi raddrizzata ma….non si può scendere a Caltanissetta a vedere i cari
nipoti figli di Saro e Nora la ricca ereditiera, orfana di padre da poco ma con
madre completamente in possesso del patrimonio e dell’anima della figlia,
quella strega paesana. Quanto amore per il quindicenne Gabriele sempre malato e
muto fin dalla nascita e la carina Rossella diciassettenne e muta anche lei fin
dalla nascita come forse anche la madre. Palazzi a Licata e ville e case a
Caltanissetta e una enorme tirchieria nei confronti dello zio scialaquatore di
patrimoni, a carte e affini. Saranno cazzi suoi dico io! ”Pensa che prima del
matrimonio ha fatto fare agli sposini la separazione dei beni”. Insomma
quest’anno le tre sorelle, la triade, avevano deciso per la gran riunione a
Roma. Naturalmente, lasciando all’oscuro di tutto me e la mia consorte perché
dovevano prenderlo nel culo rispettivamente nell’ordine:
Maria Grazia, giovane vedova
ottantunenne inconsolabile,che avrebbe dovuto non solo ospitare i figli di Saro
a casa sua , ma prestare la macchina (è tutto mio! È tutto mio!) a Titi e
Franco per l’avanti e indietro dal Campeggio (la polvere del nonno si rivolta
nella bara bianca).
Nitto che avrebbe dovuto comprare
sedie ed altre cibarie per la notte del 31 e il capodanno e dimostrare
ricchezza e inventiva a palate.
Saro, costretto in extremis ad accettare
l’invito atroce a Roma, chissà quanti “picciuli haiu a spinniri e lu viagra? E
suppurtari mugghieri e figghi!”
Nora …..non conta.
Lettera ad Aldo
Se mi alzo da
questa sedia a rotelle, da vecchio invalido, e apro la porta del balcone ed
esco al sole e con le mani aggrappate al ferro,grido ondeggiando avanti e
indietro al balcone del palazzo di fronte : “Aldo, Aldo, Aldo !”. Se. Allora
dalla sagoma scura del balcone con tutto intorno la pietra chiara tu apparirai:
un ragazzetto magro e sorridente col ciuffo nero lucido e gli occhi grandi e
scuri e le ciglia lunghe e i denti bianchissimi sul volto, oliva chiarissimo, e
dei peletti leggeri tra il labbro e le narici frementi. Il cuore mi si aprirà
in due metà perfette, muscolo ancora adatto a dar forza a un sangue
giovanissimo, e zampillerà, gioco amore e amicizia tutto insieme in una
totalità mai più trovata seppure inseguita per tutta una vita. La stretta via
antica rimbalzerà le nostre grida e i racconti e le promesse, riderà dei nostri
calzoncini. Abbandonerò la mia sedia da paralitico e, come facevo sempre,
spalancata di scatto la grande porta di casa mia, precipiterò il mio corpo giù
per gli alti gradini e infilerò con impeto guerresco il tuo portone e salirò
col fiatone, subito spento, un piano e aspetterò che tu apra la porta della tua
casa piena di fratelli e sorelle per me, figlio unico. Avevi un fratello più
alto di te, col viso bianco, ed uno più piccolo coi riccioli biondi, che
giocava con noi, e una sorellina col busto di gesso che ci guardava da lontano,
una madre bellissima dai capelli neri una nonna e tuo padre, un vigile urbano,
magro e alto. Nella tua casa semplice e povera pochi mobili ma sorrisi e tanto
amore, non come la mia. Il tuo ingresso
con la porta chiusa diventava una nave spaziale e due sedie davanti alla
specchiera i posti di pilotaggio e ….. l’universo intero ……lo spazio stellato
…..l’avventura, il coraggio il vuoto, il precipitare, il muoversi con lentezza.
Si atterrava e si veniva allo scoperto sul nuovo pianeta ed allora ecco lì un
mostro da eliminare ed un altro ed ancora un altro e gridavamo e sudavamo e via
a storie che non finivano mai…..finché dovevo tornare alla mia casa silenziosa
e deserta….. ad attendere altri mostri, questi veri che urlavano e si mordevano
le mani e si strappavano i capelli fino a sanguinare e colpivano con la testa
il muro fino a che chiazze rosse non …..dove potevo rifugiarmi forse sotto il
tavolo o forse nella nicchia del credenzone o dello sparecchiatavola o dalla
vicina di casa. Queste cose tu Aldo non le sapevi, ma forse vedevi il
materasso, bagnato di piscio esposto al balcone ad asciugare, così lo sapevano
tutti per strada e la mia umiliazione era più feroce. Tu eri l’amico che
giocava con me; preferivo raccontare al gatto, le mie tristezze. Crescevamo e
ci eravamo promessi di mostrarci i peli neri che ci venivano su in una zona
sotto l’ombelico dove fino a poco tempo fa non c’erano, io mentivo, non ne
avevo, forse tu, no . Non ce li mostrammo mai davvero non ne abbiamo avuto il
tempo. Da lì a poco io e la mia ‘famiglia’ ci saremmo trasferiti in una zona
lontana, in un palazzo nuovo, in una casa tutta nostra, ti invitai una volta e
venisti, ma io ero ormai un ragazzino borghese che mostrava la sua casa moderna e piena di lussi a qualcuno
che non ho più visto per….oltre quarant'anni , né pensato fino a qualche notte
fa tra una e l’altra di quelle infinite “pipì” che ormai non faccio più a letto
ma quasi. Le tue gambe lunghe e magre color oliva chiaro, la tua pelle liscia e
i tuoi denti bianchi nel sorriso, quanto li ho cercati e stavano lì in fondo
alla mia mente pronti a riesplodere con l’odore pulito di allora.
Ti ho ritrovato finalmente. Dal
millenovecento sessanta dovevamo arrivare al duemila!
Quando sono nato
La seconda
guerra mondiale, quella con Germania, Italia e Giappone da una parte e gli
inglesoamericani e i russi dall’altra,
tanto per intenderci, non era ancora finita ma, da li a pochi mesi: sbarco in
Normandia dall’alto, sbarco in Sicilia dal basso e bomba atomica su Hiroshima.
Ciò avrebbe concluso quasi tutto, tranne che per pochi strascichi senza
importanza, che continuano ancora oggi, più di sessant’anni dopo. Nella piccola
cucina di nonna, la pentola di grigio alluminio bolliva da qualche minuto sulle
braci di carbonella, quando Mara, una bellissima ragazza intorno ai vent’anni,
aprì lo sportello vetrato dello “stipo”
per prendere un cartoccio di carta pasta da cui spuntavano i tanti fili
dorati degli spaghetti. I capelli di Mara erano una cascata morbida e lucida
che si concludeva al di sotto delle spalle con due onde semicircolari, una più
minuta e l'altra più larga, brillanti
per la luce che entrava dalla grande finestra al suo fianco. Spaccò in due
parti i lunghi spaghetti e li tuffò nell’acqua bollente. Con la mano bianca
dalle lunghe dita affusolate prese un pugno di sale dalla scatola attaccata al
muro e lo gettò tra i vapori della pentola, poi girò e rigirò accuratamente la
matassa che si era formata, una volta che la rigidità degli spaghetti crudi si
era arresa alla potenza deformante dell’alta temperatura. Un rapido scotimento
della fronte sollevò, per un istante, la morbida ala luminosa dei capelli,
rivelando due splendidi occhi verde azzurri pieni di sogni e di ansia. Nella
stanza accanto, sul gran letto di ferro nero, mia madre, sua sorella maggiore,
stava dolorosamente per farmi passare da un luogo caldo e liquido e comodo in
uno, freddo asciutto e sconosciuto. I suoi genitori, nonno Gabriele e nonna Giuseppina, stavano vicino per fare
tutto ciò che occorreva fare. Insomma per quel giorno il pranzo fu ritardato e
gli spaghetti sfatti, non so che fine fecero. Io, invece, venivo alla luce per
la gioia di tutti. Ero il primo nipote e
avevo già alcuni zii di età rispettabile ed uno, bambino di sei anni appena .
Indovinate chi mancava a tutta quella
festa del bambino ‘nato domani’, come diceva Pia la figlia del giudice Argento
vicini di casa dei nonni a Caltanissetta?ma, è naturale, mancava il mio papà,
prigioniero come tanti altri da alcuni mesi( quelli giusti però ) degli Inglesi
in Africa dove aveva l’attendente, la negretta e buon cibo in scatola. Quel
giorno di tanti anni fa saltare un buon piatto di spaghetti anche scotti, in
periodo di borsa nera, deve essere stato una sofferenza per tutti. Ecco perché,
tutti i parenti che se lo ricordano, mi dicono ancora oggi: era mezzogiorno
quando sei nato tu e non ci hai fatto mangiare quel giorno. La mia prima colpa
fu quella di avere causato la fame in casa nostra. Dalla nascita.
Forse, non potevamo starci, tutti
insieme nella casa dei nonni ed in effetti eravamo proprio tanti in tre stanze
più bagno e cucina al pianterreno della palazzina incis alla periferia della
città. Fu per questo che, dopo alcuni mesi, mi ritrovo a Palermo in casa della
nonna paterna in mezzo ad un'altra folla di zii e cugini e cugine. Nella natia
Nissa, in quelle tre stanze dormivano studiavano si lavavano preparavano cibi :
il nonno, la nonna, Mara, Titi, Dora, Nitto e Saro. Certamente, io e mia madre,
eravamo di troppo o forse il lavoro era più facile trovarlo a Palermo, chissà.
Nella grande Palermo in una casa al pianterreno di corso Calatafimi stavamo con
nonna Matilde, zia Franca, zio Pietro e i loro figli Pippo, Zina, Matilde,
Lidia ed Elda che era nata contemporaneamente a me. Ci chiamavano i gemelli e
stavamo in una grande cesta sul davanzale della finestra sulla strada. Nonna Matilde ricamava o cuciva e piangeva la
morte del figlio Ugo appena avvenuta , le cuginette più grandi giocavano e
ridevano, zio Pietro cucinava. Zio Pietro aveva una bella e grande panetteria
,dove la gente andava e veniva per comprare quel buon pane fragrante di forno e
biscotti e dolcetti ed altro ma sembra che tutte le entrate fossero dalla
moglie, zia Franca, considerate sempre e solo guadagno dunque in poco tempo i
creditori, tornati più e più volte alla carica, mandarono tutto in fallimento.
I denari se ne erano andati in passeggiate in carrozza, in abiti eleganti e sprechi goderecci di vario genere.
Torna mio padre dalla lunga prigionia, forse io ho circa due anni, qui i
racconti e i miti familiari si fanno confusi ed iniziano leggende : la porta si
aprì ed io riconobbi quell’uomo e
balbettai “papà”. Il bell’ufficiale di cavalleria coi baffetti neri si
precipitò sulla bella moglie, l’abbracciò e me la rubò e, da allora, fummo
feroci avversari. Chi era quell’essere estraneo che si permetteva di togliermi
completamente l’attenzione dell’unica persona che fino ad allora si fosse
occupata di me? Chi gliene dava l’autorità. Privarmi del calore delle braccia
di mia madre e del suo morbido seno!Cominciai ad urlare tutte le notti.
Abitavamo già per conto nostro nell’appartamento pieno di scarafaggi di via
Carella, la casa era grande e fu subito fatta la scelta di mandarmi a dormire
nella stanza più lontana dall’alcova dei giovani sposi(35 lui 28 lei). Avevo
pochi anni. Nei miei incubi più atroci, vissuti come sogni che avrebbero potuto
essere realtà, piango e mi dispero nella stanza delle rose. Una tapezzeria
stinta, da bordello, con grandi rose al pieno della fioritura, bianche rosse
rosate, dava il nome a quella stanzetta lontana dalla stana da letto dei miei.
Mi alzo dal letto sfatto e bagnato di piscio e mi trascino nell’ingresso e nel
lungo corridoio fino alla porta chiusa e rimango per terra a implorare che mi
si aprisse e tra singhiozzi silenziosi mi addormento acoltando gli strani
gemiti e rumori provenienti dalla stanza da letto dei miei…… nemici . Imploravo
compagnia e protezione avevo paura del buio e della solitudine ma era solo
all’alba che aprendo e trovandomi davanti alla loro porta mi permettevano di
stare con loro nel letto grande e caldo, qualche volta. Continuai a pisciare a
letto tutte le notti per anni e anni ma l’unica risposta a questa angosciosa
richiesta fu una serie di minacce tipo: ti bruciamo il pisellino, vuoi che lo
sappiano i parenti, vuoi che lo sappiano i vicini , vuoi che lo sappiano tutti.
Il materasso puzzolente e giallognolo veniva esposto al balcone sulla ringhiera
di ferro nero, a ludibrio e asciugatura, ma ci vollero parecchi anni prima che
l’inconveniente fosse risolto, autonomamente, verso gli otto o nove anni. Due
consolazioni: un gatto che ascoltava tutte le mie lagne e masticare, mangiare,
inghiottire qualunque cosa mi desse il piacere negato dalle persone a me più
vicine, che intanto e per altre ragioni litigavano ferocemente tutti i giorni
urlando e ……..nel parossismo dell’impotenza di non potere reagire con un solido
schiaffone alle insolenze di mia madre, mio padre rivolgeva la grande violenza
repressa su se stesso e cominciava a mordersi a sangue le mani e le braccia poi
sbatteva la testa al muro finchè la fronte e le tempie divenivano violacee e
intrecciate d’una serie di venuzze nere…….io mi nascondevo dove potevo a volte
sotto il tavolo della stanza da pranzo a volte dietro i divano ed attendevo la
fine di queste scenate in certi periodi anche giornaliere….naturalmente la
colpa era sempre mia….Il Dio denaro mieteva già le sue vittime “Io guadagno più
di te “gridava mia madre”come faremo col tuo misero stipendio”e mio padre si
lacerava capelli e viso e intanto mandava danaro di nascosto a sua madre: nonna
Matilde.
Il
custode
Finalmente era
qui,con noi, intorno, pronto a gelarci le gambe e le mani. Freddo. Notte.
Nel buio mi coprivo con la
coperta fino sopra gli occhi all’attaccatura dei capelli, solo così non
potevano assalirmi tutti quei mostri neri, muti e paurosi.
L’assenza e la lontananza, di
qualcuno che mi amasse, diventavano corpi solidi, terribili per la loro
insistenza. Comunque l’inverno tornava sempre. A volte puntuale a volte
inatteso; come adesso a distanza di molti anni. Ma c’è una solitudine che non
viene colmata mai, come un fosso nella sabbia che pensi di riempire d’acqua di
mare per fare un laghetto e non si ferma quell’acqua, si prosciuga
continuamente. Nel mio cuore un’arsura mai spenta, mi addolora sempre e il sole
è sempre lontano e, sempre, impietoso, brucia e asciuga. E’ come sedersi su uno
scoglio tagliente e fingere di guardare l’orizzonte. Freddo.
Custode presuntuoso che immagina
di non invecchiare: negando che il tempo trascorra intorno. E si addormenta
solo se le grandi mani del padre hanno rimboccato le coperte sotto al
materasso, è un attimo, meno di un attimo, poi la sua presenza baffuta svanisce
nel dolore dell’assenza e nel silenzio della notte gelida. Passerà molto tempo
perché ritorni la magia esplosiva del suo canto felice, lontano, rarissimo. Mia
madre considerava un grave peccato la
felicità e dunque il canto di mio padre. E’ un gioiello prezioso da celare
nascosto nelle pieghe profonde del cuore, per nutrirsi in tempo di carestia. Il
ricordo.
Io lo sentivo tornare quando
udivo il suo canto sulle scale: la formula perché, per incanto, Cenerentola
potesse diventare una principessa e una zucca, una carrozza d’oro. Ed io
imparavo la gioia che dà il divenire altro da sé, ma ancora non potevo
rendermene conto: colui che mi rubava mia madre diventava felice e dunque
innocuo. “Magica bula , bibbida bula, bibbidi babbidi bu, fa la magia tutto
quel che vuoi tu, bibbidi babbidi, bibbidi babbidi, bu…..” e la carrozza volava
al castello e la mia mente volava fuori dalla sua triste vita e correva ad
aprire la porta per abbracciare il padre . Ma durava poco: le liti furibonde e
sanguinose dei miei genitori spegnevano in me tutti i giorni la gioia di
vivere.
Prima che giunga la notte
Occorre mettere
in ordine gli oggetti sul tavolo e nella dispensa: allineare i pacchi di pasta
e di riso e il sale e lo zucchero e
l’olio e un enorme piatto con una montagna di sapone scuro molle gelatinoso
ambrato e trasparente. Apri il cassetto che scivola male sui listelli consunti
e prendi un pezzo di pane quasi secco. Prima che giunga la notte. In braccio al
nonno guardi gli occhiali lucenti e lo sguardo azzurro e segui i suoi movimenti
con attenzione. Seduto sulla sedia , le gambe penzolano nel vuoto; la nonna,
accanto, sorride col porro peloso sopra la bocca, grinzosa, il nonno ha preso
una grossa fava fresca e sottile taglia il filetto lasciando attaccata la testa
poi con un altro taglio fa la bocca ed il frate verde apre e chiude le fauci
sorridenti cantando una filastrocca dimenticata. Non c’è nessun’altro intorno a
noi, qualcuno si occupa solo di me e io guardo strano poi forse,sorrido.
Stasera si prega San Giuseppe e
si fa la “novena” seduti intorno all’immagine, dalla bella barba bianca, adorna
di arance e foglie verdi sul tavolo della stanza buona, ci sono le vicine e io
con la zia Mariolina, ma lei non ci vuole stare, si annoia e dopo un po’
andiamo a fare una passeggiata. Gli occhi verdi della zia brillano e sorridono.
E’ inverno e fa freddo.
In ogni stanza gabbie d’uccelli
canterini e il nonno va da una all’altra e mette il mangime e su ogni davanzale
cielo azzurro e vasi di basilico a foglia grande e media e piccolissima, tutto
profuma e cinguetta. E’ estate e fa caldo.
Titti
Quale fosse la precisa ragione
che mi aveva portato lì sul pianerottolo gelato, non mi è concesso di
ricordare. Quello che volevo è sicuro: in punta di piedi alzarmi fino al
campanello della porta della signora Guttoso e suonare fino a che non mi avrebbero sentito e aperto e
finalmente salvato. Avevo trascinato il pesante lettino fin sulla soglia e poi
fuori e ora davanti alla porta amica. Quando la signora mi vide ebbe un sorriso
triste e si mise a piangere silenziosa, chinandosi per tirarmi su tra le sue
braccia, un bambino di tre o quattro anni. Nella sua casa tutto era pulito e
pieno di luce e si respirava un’aria serena come di felicità. Nella mia, no.
Il bambino nato domani
Fossile, prigioniero d’una
pietra grigia, non riesco mai nonostante tutti i miei sforzi a uscire nel mondo
reale: io non sono mai nato. Mia madre sicuramente ha desiderato di tenermi
dentro di se per l’eternità.
Erano giorni difficili quelli, la
guerra era appena conclusa ed il nemico americano s’era persino rubato mio
padre dal felice sfollamento a Ficuzza. Prigioniero degli alleati inglesi.
Sarei nato senza padre e l’avrei rivisto e rifiutato dopo alcuni anni. Io non
potevo e non dovevo nascere ed, infatti, io non esisto e mi arrotolo sempre
nella mia matrice fossile privata: la mia infanzia, i miei dolori il passato le
fotografie. Gli altri il mondo la società persino le strade i marciapiedi il
cielo, semplicemente non esistono. Pia, la figlia della signora Argento, la
moglie del giudice, chiedeva sempre a mia nonna: quando nasce il bambino , e
lei rispondeva: domani, domani. Quando finalmente , in casa , venni alla …
luce, per i vicini di casa fui il bambino nato domani. Questo domani ancora mi
insegue come se ancora non fosse arrivato ed io non esistessi.
Zia Mariolina
Cinema, gialli mondadori e settimana enigmistica queste
nell’ordine le prime conquiste sulla strada della libertà.
Due film di seguito e gli occhi pieni di sogni. Mi
presentò lei a Lia ed Annamaria Mercurio,le due belle ragazze dei balconi
vicini ai miei in via canonico rotolo
quinto piano. Mara era innamorata dell’amore, contava i cavalli bianchi e al
centesimo sarebbe arrivato il suo principe azzurro. Pure donna Concetta la
“lavannara” di nonna Giuseppina trovava marito e lei no. Era brutta e puzzava
donna Concetta, Mara era bellissima non come la mia mamma ma pure bellissima. 6
gennaio 2002
Compie 80 anni serenamente
festeggiati in casa di nonna Maria Grazia dai Pinelli e Nitto e Giulio con
Fabrizio. Caduta finale di specchio
ovale, malamente poggiato su mobiletto in ingresso affollato di parenti in
saluto alle ore serali. Un piccolo squilibrio e l’oggetto cadde con fragore.
Scena di crisi e panico di una nonna 84enne disperata. Larga spargitura di sale
e pernotto giorgeo calmarono la nervosissima nonnetta d’assalto. Guido sta
bene.
Pane
e panelle
Valenti,
Castiglia e altri compagni, prima media.
Palermo. Scuola Media
Garibaldi ( Villa Gallidoro) e Giardino Inglese.
Anni 55, estate, ultimi giorni
di scuola.
Mescolati nel ricordo sapori
desiderati e sapori rifiutati.
Le bidelle stavano in un angolo
della gran sala circolare dagli alti soffitti decorati da cui si dipartivano i
lunghi corridoi con le classi. Tenevano in un gran cestino di vimini coperti da
un tovagliolo a quadrati bianchi e rossi, gli appetitosi e tiepidi panini con
le panelle.
Ogni focaccina, dorata e sparsa
di semi di cimino, conteneva tre panelle gialle. Odore di frittura. Trenta
lire, che io non avevo mai. A casa non avevo neanche il coraggio di chiederle
quelle trenta lire, e oltretutto era un peccato grave per un pacchione come me.
Pacchione, era l’offesa più
oltraggiosa e la ricevevo spesso dai miei compagni non certo teneri.
Al mattino rifiutavo l’enorme
tazza di caffèllatte per il velo rappreso che si formava sopra e che puzzava di
bricco bruciato e all’orario dell’intervallo scolastico avevo fame.
Elemosinare un pezzo di panino
era troppo umiliante e così una volta ne inventai una proprio buona. Trafugata
dai cassetti dell’ufficio di mio padre, una lavagnetta magica, la portai a
scuola per venderla a qualche compagno e ricavare quelle trenta lire per
l’agognato panino.
Con una punta di plastica si
poteva scrivere o disegnare sulla superficie trasparente che portava sotto una
carta carbone in modo che la traccia rimaneva fino a che lo scorrere di una
bacchetta nascosta non cancellava tutto e si poteva ricominciare all’infinito.
Era un rettangolo grande poco più di una cartolina, ma ebbe l’effetto sperato.
Erano le prime e costavano più di trenta lire, ma a me bastava. Ebbi così il
mio primo pane e panelle mangiato con goduria e quasi di nascosto. Naturalmente
da lì a poco i miei traccheggi ben notati dalla professoressa di turno furono
comunicati in famiglia dove ebbi un lisciabbusso indimenticabile.
Né ebbi per il seguito le trenta
lire, considerate un lusso inutile. Naturalmente a pranzo la fame mi faceva
ingozzare di maccheroni al sugo, colanti d’olio e frittate con patate. Il
tutto, bruciato e immerso in litri d’olio. Ottima dieta per il mio adipe in
crescita. In classe i banchi erano piccoli e stretti, forse per bambini delle
scuole elementari; io quasi non c’entravo e anzi una volta ne scassai uno
cascando per terra, in mezzo alle risate di tutti. Non ero stato sempre grasso.
Fino a cinque anni ero uno stecco e non volevo mai mangiare. Ero gonfiato alla
mensa delle suore della refezione scolastica, nella scuola elementare dove mia
madre era la maestra e dove avevo fatto con lei la prima.
All’ultimo banco con davanti
tutte quelle pestifere femminucce, umiliato da quello che era stato concesso a
mia madre come privilegio: avere il figlio unico e maschio nella sua classe di
tutte femmine.
Trascorsi tutto l’anno graffiando
il quaderno col pennino intinto nell’inchiostro nero senza riuscire né a fare
un segno comprensibile e senza capire cosa stessi facendo.
Ho imparato a strappare pagine macchiate una
dopo l’altra fino a ridurre il povero quaderno ad un sottile strato di fogli
senza speranza. Copertine lucide nere con le pagine con le righe strette e
larghe e i bordi con le righe verticali per cominciare dentro e non finire
fuori.
Le consonanti e le vocali hanno
un luogo in cui stanno serene con le loro parti superiori e inferiori contenute
e tondeggianti.
Un lungo ballatoio con la
ringhiera di ferro nero guardava giù nel cortile con i tavoli della refezione e
le suore dai sederoni neri. Un cancello di ferro ad un lato del cortile a cui
si arrivava con una breve scalinata, separava un giardino aggrovigliato
d’alberi e cespugli. Il cancello era sempre chiuso.
Quante volte ho riempito il calamaio d’acqua
dal bagno e poi ho mescolato con la polvere scura per fare l’inchiostro.
Perdevo tempo al rubinetto alto con l’acqua corrente.
Una volta la bidella mi mostrò
felice una borsa per la spesa che aveva fatto cucendo insieme tanti triangoli
di pelle colorati. Il bidello invece aveva un orologio da polso con un sole e
una luna che si alternavano e n’era molto orgoglioso.
Da una scala stretta lunghissima
esterna scendevamo in fretta col fiocco blu mezzo sciolto e i colletti bianchi
storti, dal piano delle aule all’uscita che portava ad una stradina angusta
fino a Piazza Monteleone, dietro l’ufficio postale di Via Roma.
Una ragazzina un giorno urlando
sbatté tante volte la testa sul muro di quella stradina fino a morire.
Non ho mai saputo perché, ma ogni
volta che passavo cercavo con gli occhi il muro scrostato per avere paura e per
rinnovare l’inconsapevolezza.
Ogni inverno trascorrevo almeno
un mese a letto con potenti raffreddori culminati spesso in una broncopolmonite.
Quello che temevo era la siringa di vetro bollita e col suo ago luccicante, ma
più di me la temeva mio padre che in queste occasioni usciva da casa per non
sentire le mie urla e i miei pianti. Ricordo ancora intorno al lettone dei
miei, nonna Fina e tutti i Guttoso, il dottore e una ragazza che ci faceva da
cameriera.
Ora era estate, l’ultimo giorno
di scuola, terza media. Stavamo coi compagni al giardino Inglese , un gruppo
giocava a pallone io guardavo. Da dietro i cespugli Valenti mi chiamò. Era alto
e coi capelli neri ricciuti, sorrideva divertito. Pastiglia stava inginocchiato
davanti a lui e teneva tra le labbra il pisello di Valenti e mi guardava coi
suoi occhi verdi e grandi. “Vuoi provare anche tu?” mi disse Valenti e
pastiglia col pisello in bocca annuiva come a dire , prova che è gustoso.
“no” dissi “se poi mi fa pipì in
bocca, che schifo” “Ma no” ribattè Valenti “me lo faccio minare con la bocca e
basta”.
Scappai arrossendo mentre quelli
ridevano . Le mie gote si erano infuocate.
Natale
in famiglia 2005
Cara Maud
giornata con pioggia ghiacciata
Mari con febbre
16 a tavola in una stanza 6 per 4
fettuccine sfatte colanti e
insudiciate di un’acquetta rossastra
fettuccine appositamente fatte
fare farina 00 ( nel senso di cessus) e acqua di …..
ululati nittei contro tutto e
tutti
salsicce ultracolanti sia al sugo
sia in altro modo piuttosto misterioso
macedonia di frutta scelta ( mele
pere arance inzuccherate in superficie)
scelta forse da un fondaco aut
similia
mariolina che ci comunica che fa
spesso pipì perché incontinente ( meno male che non ci ha mostrato il
pannolone)
vestiari vari uso barboni
ululati che ci comunicano i costi
vari di : budello per le salsicce , carne di vitello , il pepe niente per
comando di nonna Abelarda, la conserva di pomodoro (una buattina scarsa), guai
se mangiate l’insalata russa prima delle salsicce ( non si dovevano per nulla
al mondo cambiare i piatti della colla, lasciata da quasi tutti colmi).
olive nere con osso nell’insalata
russa di nonna Abelarda
salvati da:
splendidi gamberoni sgusciati
dell’ insalata russa di nonna Abelarda
corvo rosso (bottiglia già
smezzata)
aranciate e coca cola
panettoni splendidi e biologici
dei Pinelli ( criticatissimi dall’ululato nitteo )
io in giacca e cravatta : abito
rigato e cravatta bordeaux su camicia blu rigata bianca
i cugini di Milano con doni
simpaticissimi
un dito di amaro Averna da una
bottiglia quasi alla fine , sbintata.
tempo occorrente al tutto ore
13,30 ore 15,30
Sospetto che la recita
tragicomica a cui abbiamo assistito abbia avuto come fine da parte di Nitto di
ostentare povertà estrema alla figlia venuta da Palermo in cerca di denari.
cuginpippo
Il
piccolo cuoco
Andavo a
scuola da solo a otto anni. Qualche volta veniva mio padre a riprendermi ed io
lo aspettavo davanti all’ingresso della ditta di zio Saverio che mi regalava
un’arancia per farmi stare buono. Guardavo le giovani lavoranti incartare i
frutti con dei fogli di carta velina con
la trinacria stampata in rosso e metterle nelle cassette. Mi osservavano e
ridevano. Il profumo era fortissimo. Ero in terza elementare con la maestra
Leone e siccome ero raccomandato non facevo niente e continuavo a non capire
niente di quello che si faceva a scuola. Poi mio padre non venne più a
prendermi. Tornavo allegro e spensierato ma triste; una volta riportai dentro
la cartella un gattino mezzo morto di freddo. Morì dopo pochi giorni . Saro si
mise a ridere forte quando lo trovammo sul terrazzo ghiacciato come una
minuscola sfinge con le formiche che entravano e uscivano dalla bocca chiusa.
Rideva perché io mi misi a piangere. Mi pareva di essere morto io. Era
d’inverno.
Quando tornavo da solo , avevo la
chiave per aprire la porta e dovevo mettere la pentola con l’acqua sul fuoco,
nella cucina attraversata da scarafaggi neri che mi facevano schifo come a zia
Mariolina. Rimanevo solo fino all’una e mezzo, quando tornavano prima mia madre
e poi mio padre. Ricominciavano a litigare per i soldi. Come al solito mio
padre veniva rimproverato perché guadagnava meno di mia madre che glielo
rinfacciava continuamente. Solite scene terrificanti.
Durava tre giorni e non si
parlavano, dovevo essere io a fare da tramite.
“Di a tuo padre che…..” “Rispondi
a tua madre che….”
Imparai a fare il sugo e poi
negli anni a cucinare, ricavando le ricette da un libro con il calendario e una
ricetta per giorno cioè 365 ricette.
Una volta affettando del salame
mi taglia di sbieco il pollice e me lo fasciai da solo, con un fazzoletto che
s’inzuppò subito di sangue rosso. Naturalmente i miei rimasero a tavola e quando lo seppero non fecero altro che
ammirare il mio coraggio. Ho la cicatrice ancora oggi. Mi consolavano un gatto
e la signora Guttoso, la vicina di casa. Venivo spesso punito con palettate
sulle mani , di numero variabile a seconda della gravità della ribellione.
Anche lo stanzino, umido buio e puzzolente di polvere, fu utilizzato dalla mia
aguzzina , mia madre, come carcere, a volte per una a volte per due ore. La
prigionia si ripeteva tutte le volte che era ritenuta necessaria.
Dalla finestrella accanto a
quella dello stanzino, che davano nel “pozzo di luce”, la voce di Titti Guttoso
mi consolava piena di pena.
Nel silenzio frugavo spesso
in una lunga cesta del “Genio”, su cui
di solito stavo seduto e in cui erano tenute le cose di mio padre tornato dalla
prigionia in Africa: l’uniforme , gli stivali e una pistola grigia.
Mia madre teneva la casa sempre
piena di polvere e sporca. Non aveva tempo , doveva fare lezioni private, in
casa. Per i soldi. Avevamo la casa piena di ragazzini e ragazzine. Per me non
c’era tempo che per le punizioni. Matteo Costa mi incuriosì con un affare
moscio e lungo che gli usciva dai pantaloni corti, come mi mostrò sotto il
tavolo mentre facevano lezione almeno in quattro. Un paio di volte venne a
trovarmi nella stanza in cui studiavo da solo, e si mise a quattro zampe come
un cane col suo affare bianco e duro teso tra le zampe di dietro. Che risate!
La scalata di monte Cuccio
Domenica notte, buio pesto.
Volevo rimanere ancora a dormire tra le pesanti coperte nere; niente, venivo
bruscamente tirato giù dal letto, nonostante strepiti, pianti e proteste.
Nel silenzio si compiva il rito
della vestizione e dovevo mettere ai piedi due paia di calze di lana e i
pesanti scarponi unti di grasso, puzzolente. Zaino di tela militare verde
grigio insaccato di maglioni e misteriosi cartocci, borraccia col tappo di
metallo colla catenella e frignando, avrò avuto sei o sette anni, trottavo
malvolentieri dietro i genitori frettolosi. Strade deserte, cielo stellato e
muso incavolato, a piedi raggiungevamo la stazione del pullman per San Martino
, nella piazzetta dietro il teatro Massimo. Si aspettava; il mezzo pubblico,
uno scassume blu, arrivava dopo di noi. Mio padre fumava la sua serraglio, una
sigaretta piatta senza filtro.
L’autista si chiamava Dante e lo
conoscevamo bene. Salivamo e partivamo: unici occupanti delle lunghe file di
posti. Era la prima corsa.
Ore quattro. Mio padre voleva
arrivare presto, il primo. Un’ora di viaggio, Boccadifalco , Monreale e
finalmente San Martino. Nebbia, freddo. Neanche il negozietto dove compravamo
pane e mortadella era aperto. Un’altra sospensione, seduti sulle panche di
cemento, ghiacciate.
Finalmente arrivava una donnina
incappottata che apriva la piccola porta e ci faceva entrare nel negozio buio.
Accendeva una lampada dalla luce fioca e dietro al bancone affettava mortadella
e pane. Prima colazione, mordevo con rabbia e fame quel pane raffermo e lentamente
mi riconciliavo col mondo infame.
Il cielo si schiariva tra le
nuvole dense e spuntava qualcuno sulla piazza del paese.
All’abbeveratoio delle mucche,
dietro il negozio, un getto d’acqua ghiacciata spegneva la mia sete e andavo di
nuovo a sedermi, pensando alle fatiche che mi avrebbero raggiunto durante la
giornata. Arrivava il momento, al comando di mio padre, di percorrere la breve
salita fino alla villetta dello zio Ninno Meli. Scalini alti , abbaiare dei
cani e ancora attesa, nel giardino con la vasca di cemento piena d’acqua
verdastra. Quella domenica dovevamo scalare monte Cuccio, altezza 1600 metri . Zio Ninno
scendeva per primo, seguito dai tre figli, Ferdinando , il primogenito,
Elisabetta e Maria Teresa. Zia Carlotta ci salutava dalla finestra coi gerani
rossi. Doveva sbrigare in casa e in pollaio.
Zio Ninno aveva portato con sé
quella contadina bergamasca fino a Palermo. Avevano messo su famiglia, senza
sposarsi, e i Meli, di nobili e abateschi antenati, non avevano accettato
quella bella signora dagli occhi azzurri e lo guance rosate, neanche quando
erano nati i figli, tutti con gli occhi azzurri e le gote rosse e la carnagione
chiara. Gente del nord, da non fidarsi. Zio Ninno era un omone, alto e immenso,
con la voce tonante e fumava la pipa. Ne aveva una gran collezione sulla
mensola dello sparecchiatavola, nella stanza da pranzo. Prima della guerra, era
stato compagno di avventure di mio padre ed erano grandi amici. Forse neanche
mio padre amava la chiesa, con orrore di mia madre, beghina già a quei tempi.
La piccola comitiva si avviava verso l’alto a passo lento. Le stradine presto
si trasformavano in sentieri fino alla prima sosta dopo un’ ora di cammino. L’acqua sgorgava
direttamente da una roccia liscia senza neanche una cannella, che spuntò dopo
pochi anni. Riempivamo le borracce, ognuno la sua; si doveva bere solo la
provvista personale, pochissime gocce per volta. La salita faticosa sarebbe
durata quattro ore, gambe indolenzite , una sosta ogni ora, di cinque minuti,
una sorsata e ricominciare in fila indiana. Ero sempre l’ultimo, tra le risata
di tutti, specialmente di mio padre che era sempre il primo.
Quella volta ottenni di stare
sulle sue spalle per qualche minuto, quando a metà del tragitto mi ero buttato
seduto sulle rocce e non volevo più muovermi. Ora avevamo iniziato il sentiero
di pendenza lieve, a zig zag, la pineta era sparita da tempo, intorno pietrisco
e nient’altro, il sole picchiava forte. Neanche un filo d’erba, neanche un
fiore. I piedi bollivano per il calore accumulato e per la stanchezza, ma
bisognava andare avanti. Silenzio, il fiato serviva per faticare la lenta
risalita del fianco della montagna. “Respira, respira” diceva mio padre. Io
pensavo: ma questo è proprio matto e cosa sto facendo, sto respirando o no?
Elisabetta e Maria Teresa ogni
tanto mi rivolgevano la parola per consolare questo ragazzino recalcitrante
obbligato a una tortura ripetuta. Sognavo di arrivare e togliermi gli scarponi
per far riposare i piedi doloranti. Finalmente si arrivava in cima e non avevo
occhi per il panorama, sicuramente meraviglioso. Avevo solo fame e nella sosta
svitavo il coperchio del recipiente d’alluminio e m’ingozzavo degli
‘ammataffati’ e orribili anelletti col ragù preparati al mattino da mia madre,
con rabbia.
Misteriosi sorrisi, per me
incomprensibili. Durava poco, la sosta per il cibo. Una bevuta dalla borraccia
era un’altra sofferenza: l’acqua aveva preso amaro sapore d’alluminio, come gli
anelletti. La discesa, per fortuna, avveniva in un tempo minore, un paio d’ore.
Di nuovo la casa di zio Ninno, accogliente e serena. La cena tutti insieme
nella grande sala da pranzo, polenta e salsicce al sugo. Ferdinando si spalmava
sul naso rossiccio, screpolato dal sole, una pomata, le ragazze parlottavano
nella loro stanza, io leggevo un “Topolino”. I saluti, le chiacchiere, il
pullman e a casa a dormire triste e stanco. Un’altra domenica passata senza
gioia. La mattina dopo, mi attendeva un altro risveglio immusonito e la scuola.
Senza riposo, senza sosta. Senza significato.
Anni dopo, Ferdinando, lo
scalatore di montagne, cominciò ad amare il mare e nei suoi giorni di riposo
dal lavoro d’avvocato, faceva immersioni da sub. Aveva tradito la montagna? Non
lo so. La moglie sulla barca lo attese lungo quella volta. Se l’era preso il
mare.
Lo trovarono, incastrato con la
bombola dell’ossigeno, in una stretta fenditura tra le rocce. Aveva forse
inseguito una grande cernia luccicante o l’ossigeno lo aveva addormentato.
Chissà. Zio Ninno non volle mai accettare che quel suo figlio maschio, dal
corpo muscoloso, fosse sparito nel mondo della morte. Zia Carlotta, che ci
raccontava della silenziosa disperazione del marito, precipitato nell’abisso
dei sensi di colpa, lo sentiva ancora vivo anche lei. Al mattino presto, udiva
i passi di Ferdinando per le scale ed il suo preparare il pastone per i polli.
Ogni mattina. Io ricordo solo che Ferdinando sapeva tutto sulle costellazioni e
mi raccontava dell’orsa maggiore e di Orione e della stella più brillante che
sorge per prima nel cielo notturno e non è una stella ma il pianeta Venere.
Aveva gli occhi azzurri, Ferdinando, ed era un bravo ragazzo.
Artemia
La signorina
Artemia era sfollata a Cinisi con la madre e la sorella Ortensia. La piccola
casa di campagna dove abitavano era circondata da alberi di mandorlo e qualche
ulivo.
Quella sera, mentre tornavano
dalla messa, parlottando frettolose lungo il viottolo sterrato, s’accorsero
d’un tratto che da un mandorlo s’erano levati improvvisi con un gran batter
d’ali alcuni passeri scuri. Nel silenzio della crepuscolo, un fruscio, gelò il
sangue delle tre donne. Un giovane apparve e le fissò con i suoi grandi occhi
neri appena nascosti da un gran ciuffo di capelli scomposti. La madre voleva
continuare la sua strada ma qualcosa nello sguardo di lui la bloccò.
“Vengo dalle montagne, non trovo
più i miei compagni partigiani, ero venuto a cercare mia moglie che non ho
trovato, vi prego fate qualcosa non so dove andare” sussurrò veloce d’un fiato,
lo sguardo velato. Al silenzio delle donne, il velo sugli occhi si trasformò in
una lacrima, asciugata con rabbia sul dorso della mano. “ Ho fame” supplicò. Fu
Artemia a intercedere presso la madre riluttante; era buio, adesso. Lo
portarono nella loro casa. Nel cielo nero scintillavano miliardi di stelle. Lo
ospitarono, nascondendolo, per più di un mese finché la guerra finì. Una notte
era uscito a fumare una sigaretta e una vicina aveva visto la sagoma di un
uomo. Intorno alla casa di tre donne! Non lo denunciò, perché Artemia,
interpellata dall’amica curiosa, s’inventò una storia. “ Per carità, non dite
nulla a mia madre ; è un giovane disperato e innamorato di me, che viene a
trovarmi di sera, perché mia madre , non vuole saperne di uomini , in questi
tempi disgraziati!” Artemia salvò un partigiano, immolando la sua purezza anzi
inventandosi d’averla immolata. Un amore impossibile e una decisione
risolutiva.
Zia Artemia, cugina in secondo
grado della madre di mia moglie, dunque da lei chiamata zia, negli anni
seguenti divenne centralinista in un ospedale e rimase signorina. Piccola e
magra , tacchi a spillo, e vestiti colorati, si truccava in modo esagerato:
labbra rosse e ombretto blu. Non si lavava mai con l’acqua, ritenuta forse
inefficace, ma con l’alcool denaturato, lo spirito. Aveva preso, nel tempo un
colore ambrato e la sua pelle era divenuta come la carta vetrata. Viveva con la
sorella Ortensia ,che non aveva lavoro. “Date un bacio a Zia Artemia” e i
nipoti fuggivano impauriti dalla probabilità del tocco di quella pelle scura e
rugosa.
In famiglia godeva di grande
rispetto perché era la zia che in tempo di guerra aveva salvato un giovane
partigiano ed aveva dedicato la sua vita al ricordo di un amore mai esistito.
Forse sognato.
La professoressa Gagliano
La nostra professoressa più amata
era quella di francese. Si chiamava Gagliano e si muoveva molto lentamente, per
la sua mole notevole. Vestiva sempre di nero; era la vedova di un misterioso
marito, molto amato e scomparso da tempo immemorabile.
Era molto anziana e sempre
sorridente, un viso dolce e dei capelli biondo-bianchi forse tendenti al giallo
dorato, radi. Braccia e busto sottili poggiavano sul resto immenso.
Una piramide nera come l’ardesia
della lavagna al lato della cattedra, su cui si arrampicava come scalando una
montagna. Tutti in piedi, come ci eravamo disposti al suo ingresso,
osservavamo, nel più assoluto silenzio, il suo issarsi fin sulla pedana ed il
successivo incastrarsi nella poltrona dagli ampi braccioli. L’ansimare si
calmava e finalmente, ad un cenno bonario della piccola mano, tutti seduti.
Adorava Théophile Gautier e ci faceva leggere “Il Capitan Fracassa” in aula ad
alta voce. Qualche volta gradiva che lo recitassimo. Con lei avevamo tutti
anche più del sei, voto che nelle altre materie del liceo classico che
frequentavamo, era un sogno spesso irraggiungibile.
Il mio ricordo è legato al giorno
in cui venne in aula con una pennellata gialla di uovo alla coque, ancora sul
mento. Scoprimmo, che i nostri professori erano esseri umani con una vita ed
una prima colazione. Non entravano dalla porta, esistendo ogni giorno per noi e
la porta, all’uscita, non li inghiottiva in un nulla vuoto e popolato solo da
professori e professoresse. Questo avveniva nei lontani anni cinquanta.