12 giugno 2018

UNA PAGINA AL GIORNO


UNA PAGINA      

……AL GIORNO…….


Racconti brevi di                                                                        
Anonimo Nisseno  
Giuseppe Davì


Indice provvisorio




1.      Il titolo
2.      La mia tumulazione
3.      Palermo
  1. Trinacria
  2. Caltanissetta
  3. Il cugino Angelino
  4. Pane e uova a occhio di bue
  5. La rosa di zio Ugo
  6. Melata
  7. Amalia
  8. Lettera a un papà
  9. Un Natale anni 60
  10. Un Natale anni 90
  11. Lettera ad Aldo
  12. Quando sono nato
  13. Il custode
  14. Prima che giunga la notte
  15. Titti
19.   Il bambino nato domani
  1. Zia Mariolina
  2. Pane e panelle
22.   Natale in famiglia 2005
23.   Il piccolo cuoco
24.   La scalata di monte Cuccio
25.   Gli spaghetti di zio Ninno
26.   Artemia
27.  La professoressa Gagliano

 

 Il titolo


Perché no? La scrittura come cura ed antidoto ad una giornata noiosa. Prendere coscienza: cosa fare e su che binario?
   Ecco arriva veloce uno strano, immenso, nero e lunghissimo scatolone di ferro su ruote enormi, azionate da barre lunghe e sagomate, le bielle. In alto sbuffi di vapore, bianco sul cielo azzurro. Scelgo la strada ferrata dei segni e delle parole. Io, treno a vapore. Io, locomotiva e vagoni.
Chiedo: voglio un quintale di gelati di crema e d’uranio radioattivo, pagherò domani, anzi qualcuno pagherà le mie voglie e il mio lavoro sarà soltanto desiderare e poi essere tumulato in una bara di zinco, no, almeno di legno, chiaro, lucidato.
   Splendido, continuo sfilare delle linee più spesse e più scure, su un piano beige chiaro come i centrini ad uncinetto, fatti col cotone ecrù. Nessun significato apparente, rende faticoso cercare strade da segnare. Valore scatenante della memoria, lasciare aperto il rubinetto dell’antico gioco del lasciarsi andare e credere giusti i risultati dell’inconscio. Fare venire a galla parole e colori e suoni e luci e odori per cominciare a mettere le fondamenta di una nuova futura illusione. Scrivo dunque esisto! Contare righe e parole questo è essenziale, il significato no. Neanche sarà sequenziale.
Dove la spaziatura tra lettere o parole lascia bianco il foglio lì c’è un sentiero da fare percorrere alla fantasia, all’errore, alla fatica del tentativo.

La mia tumulazione


La mia tumulazione sarà piuttosto difficoltosa e buffa. Pensa un treno rosa, obeso e molle e avvolto di lastre di pancetta affumicata, il tutto da spedire direttamente ai popoli affamati, come elemento base per tutti quei gialli e rossi intrugli fumanti e piccanti in vendita nei mercati esotici, insieme alle panelle e alle crocchette e agli sgombri arrostiti.
Io, a pezzetti, in un laghetto di peperoni e cipolle e olio fritto e rifritto, da anni. La gente va e viene tutto intorno: chi ne compra un cartoccio, chi tanto, chi ne assaggia un briciolo, tutti felici.
      La chiave della felicità, la chiave dell’Europa, sai cos’è? E’ la città porta del mediterraneo; è la città più amata del mondo; è la città che era un giardino d’aranci ed ora è un giardino di palazzi e di quartieri e di case e d’esseri umani, i migliori del mondo perché odorano di sudore ascellare e di pane bianco appena sfornato e d’amore appena fatto. L’odore acre dell’uomo e della donna abbandonati sulla sabbia calda della spiaggia.  Felici, con le mani che s'intrecciano e gli occhi al cielo fresco e azzurro.
   La mia terra è la mia tomba, la mia città è la mia bara felice, i miei ricordi riempiranno la terra di infiniti piccoli semi grassi. Mangerò carrube nere con la bocca di teschio e nelle orbite vuote brillerà il sapore aspro e dolce e scivoleranno i carati lisci e duri e le cavità delle narici avrò piene di secco giallo delle ‘restucce’ di paglia dopo la mietitura di giugno.
   L’altalena dalle lunghe corde oscillerà lentamente avanti e indietro vuota anch’essa e il grosso ramo del vecchio mandorlo cigolerà per niente su e giù appeso al cielo azzurro silenziosamente…silenziosamente, neanche lo stridio dei grilli a migliaia…niente…niente…

Palermo


Palermo: ti raggiungo, io stesso strada ferrata, io stesso treno di me stesso, intreccio di Grecia e di Africa senza saperlo. Una paralisi come una malattia polmonare mi tiene chiuso, prigioniero davanti al teleschermo ad ingozzarmi di racconti d’oltreoceano violenti e sanguinari. Li, la gente uccide o rapisce o froda con più stile, con fantasia tutta trine e, maggiore è l’entità del delitto, più sicuri si è di farla franca.
   Sono a metà pagina e sono già stanco e asciutto; no, vai avanti forza e coraggio, altrimenti la ginnastica non avrà alcun effetto per il tuo cervello atrofizzato. Trent’anni sono trascorsi o poco meno, ma sono stanco continuerò domani cancellando. Faticoso, vero? Sì, notevolmente.

Trinacria


Trovare parole che siano collegate a ricordi non è facile. Si cerca sempre di rispettare regole o cose del genere, io, regole non ne conosco e voglio andare avanti così come viene, soltanto con un minimo di gioia nel trovare parole. Trinacria, un’isola a tre pizzi, che a tenerla calda ci pensa un vulcano e una marea di gente sudata. In quel vulcano c’è un dio sempre incazzato che, giorno e notte (lì sotto è sempre buio) con una mazza enorme su un’incudine ancora più grande rovescia colpi su colpi per rinforzare uno spadone grandissimo e quando ne ha finito uno, ne fa un altro. Fa un rumore pazzesco, ne sanno qualcosa quelli di Bronte. Vi prego non dimenticatevi di Bronte. La moglie è sempre iperincazzata perché lui è sempre indaffarato e non se la scopa quasi mai, la dea allora fa un fischio e arriva un pezzo di dio bellissimo muscolosissimo e dotatissimo che cornifica l’altro che lavora sempre.
   Questi tre sono Vulcano Venere e Marte. Prima lì era la Magna Grecia che sarebbe a dire che quei tre avevano altri nomi tutto qua: Efesto, Afrodite e Ares.
Veramente il professor Bellafiore di storia dell’arte, l’unico che mi ricordo dei miei sconclusionati anni di scuola (un liceo classico per famiglie per bene, poi ce n’era un altro ma era per le famiglie basse), insomma il professore aveva la moglie che faceva la segretaria alla biblioteca americana e ci andavamo ma era tutto scritto in un’altra lingua e l’ingresso era bello e dentro tutto pulito e senza polvere. Bellafiore ci fece amare la storia dell’arte. Agrigento e la valle dei templi erano la Magna Grecia ma anche Selinunte. Eravamo una colonia greca, pensa che meraviglia, ma no poi non si parlò né si scrisse in greco ma in latino e molto più tardi in italiano. Io lo dico sempre che le vere rivoluzioni sono quelle delle parole, oggi hanno vinto più che mai gli inglesoamericani, vera luce del mondo.
   Nella biblioteca americana scoprii Walt Whitmann lo scrittore pioniere, che descriveva i falli alzati nel vento delle praterie da cui sgorga il seme bianco del futuro che odora d’agrodolce e testosterone.




Caltanissetta


Io sono nato in un luogo di favola al centro dell’isola. Qui un sultano dal viso sereno fondò un castello Qal’at dov’era una splendida oasi, Nissa. L’odorosa di caniglia, di galline e di terraglie, l’attraversata da pecore bianche e nere, che lasciano al passaggio qualcosa di simile a parole: tante palline nere e morbide. Qal’at Nissa dagli ulivi bassi con le foglie piccole argentate, l’altopiano con un monte al centro e la valle lunga sotto, e intorno piccoli laghi d’oro e immense distese di alte spighe di grano, grano duro e più lontano ancora le solfatare con le collinette gialle dal sapore aspro.
   Splendide giornate assolate e solitarie a studiare formiche nere e formicai, buchi tra i solchi della terra scura spaccata dall’arsura e le cicale e il calore assordante e i giardini di fichidindia spinosi e polverosi, i cento mandorli ed l’immenso carrubo nero, lassù a mezza collina.

Il cugino Angelino


Il cugino Angelino, un tipo secco con gli zigomi puntuti e dalla faccia quasi nera, malarica, che occorreva odiare, non capivo perché. Ora so per certo che bisognerebbe odiare tutti e di tutti diffidare, “taci il nemico ti ascolta”, “si vis pacem para bellum”. Ventennio lontano. Il cugino molto raramente appariva dietro i vetri della vecchia casa e spariva per anni. Duemila anni di gesùcristo e molto meno anni di Che non ci hanno ancora insegnato nulla, le banche e i dollari o i franchi svizzeri sono sempre i più forti.

Pane e uovo ad occhio di bue


Acuto acre odore spiritiera fornello alto di ferro e una padellina nera, l’olio sfrigola, olio delle nostre olive piccole e scure.
Plaf l’uovo tuffato nell’olio bollente; profumo, come un pugno allo stomaco, quanta fame, tutti i giorni. Uovo fresco, desiderio di masticare un buon sapore, no, non è per te è per un altro. Era per zio, figlio di nonna, e a me un pezzo di pane e un’oliva. L’ho finita, ma come ti sei finita un'oliva così subito? Che umiliazione. Sei grasso devi mangiare poco.
   Che gioia, nonna, quando facevi quel pane in casa, quelle forme bianche tonde e grandi col segno particolare sopra (una specie di croce). Veniva un ragazzetto del forno più su di Via Palmintelli, che erano forse piccoli palmenti (macine da mulino), poi vai tu a riprenderli cotti, ma sempre io devo andare e lui no, mio zio, e litigavamo sempre. Io ero un intruso, abbandonato dai miei genitori.
   Aveva ragione, che ci facevo io tutte le estati a casa sua? In un’altra città lontana dalla mia che per arrivarci mi mettevano sul treno come un pacco affidato al bigliettaio. Contavo le campagne riarse e le curve e le gallerie, ormai tutte le sapevo, avevo cinque e sei e sette e otto e nove anni, e arrivavo con le guance e la fronte nere di fuliggine.
   Era bello andare dai nonni, si, ma perchè tutte le estati e per tutta una lunghissima estate. Come facevo a conoscere i miei genitori e mio padre, che lo vedevo solo la sera e sempre a litigare ferocemente, cominciava col mordesi le mani a sangue e poi si strappava i capelli e batteva la testa sul muro e si dava schiaffi su quella faccia che si faceva rossa: guadagni poco urlava mia madre e lui si umiliava e forse avrebbe voluto più rispetto ma quella niente guadagni meno di me porto avanti io la casa sei un miserabile e per tre giorni non si parlavano che tramite me: dì a tua madre che… Dì a tuo padre che… Dimenticare era facile, bastava mangiare, sì mangiare, unica felicità. Appagamento immediato. Più mangiavo e più ero nella curiosità di tutti e l’infelicità aumentava e ancora a mangiare e pane e pasta e olio e pane e pasta e olio.
   Riportare le grandi pagnotte odorose e calde alla nonna e averne in cambio un bel pezzo aperto in mezzo e un filo d’olio e un pizzico di sale e, raramente, qualche scaglia di formaggio pecorino. Gli altri giorni il pane sarebbe divenuto più asciutto ma sempre buono, fino alla successiva avventura del pane.  Il portiere viveva in una porticina in cima a una scaletta di pochi gradini nelle palazzine INCIS, i nonni al pianterreno e le finestre erano tutte sul porticato d’ingresso. L’appartamento di fronte era del giudice Argento, una casa grande e pulita ordinata, ma era vietato sia a me sia alla nonna di starci troppo. La porta di casa dei nonni era sempre aperta, bastava una spallata e si apriva. Magico mondo libero. Due libroni dei Topolino anteguerra dal numero uno, formato giornale. Fu lì che sprofondavo nei sogni per ore.

La rosa di zio Ugo


Su una lastra d’ardesia larga poco più di una mano tutta aperta, c’è una rosa bianca dipinta ad olio.
Le pennellate furono leggere e la sottigliezza estrema del colore ne rivela l’essenzialità.
Il bianco niveo degli orli scivola verso l’interno in un tepore incarnato che arrossisce.
Essa sta sola con i petali già schiusi, nella sua più fulgida maturità; riposa su due sottilissimi tralci, sostenuta da un terzo. Poche le foglie, minute, di un verde ombroso; un solo bocciolo sospeso sullo sfondo tutto grigio di pioggia e di vento.
Il corpo della rosa è un blocco di tempo, il tempo di una vita vi è tutto impresso: dal nucleo centrale quasi ardente, fetale, indifeso, si passa agli orli bianchi, cristallini, duri, intransigenti dei petali di mezzo ai due petali esterni, in cui il bianco diventa glauco; da cataratta precipita in un pallore quasi verde, lì alla base, dove il petalo ancora sta, abbrancato alla sommità del gambo.
   Un padre e una madre di ghiaccio, gelidi e inerti. Sordi a qualunque grido di paura di un cucciolo d’animale abbandonato tra i secchi della spazzatura. “E’ lì che ti ho trovato” mi gridava sorridendo ogni giorno al mio ritorno da scuola: fiocco blu sporco e gualcito, scarpe rotte e cartella sformata. I soldi si dovevano conservare ed accumulare per altre cose, ad esempio per comprare la casa. Per strada i cari compagni delle elementari mi circondavano schiamazzando e sussurravano “Sporco, pacchione!” Li odiavo tutti, se avessi potuto li avrei lacerati con le mie stesse mani e sparso sui marciapiedi i brani sanguinolenti, ai cani.
   Invece tacevo, erano tanti e le loro parole facevano centro, sempre.


Melata


Arrivare alla stazione di San Cataldo era sempre una gioia totale.
Io, sudato e fuligginoso e i pantaloncini corti e i sandali marroni, e la nonna con un sorriso dolcissimo ed il porro peloso sulla guancia, carichi di pacchi e pacchetti stretti con lo spago giallo, afferrati alle lunghe e nere maniglie metalliche delle porte non ancora spalancate, attendevamo la fine del lungo fischio dei freni. Forse non si può raccontare ma solo ricordare senza parole, i suoni e gli odori acri presenti. Non è più la stessa cosa di allora: millenovecentocinquanta; i vapori bianchi e grigi della locomotiva e i due scalini altissimi fino alla pietra della banchina e la stazione, una casetta di pietra e due stanzoni d'attesa; dietro, una campagna deserta color pietra chiara. La fontana di ferro nero aveva una sbarra e su e giù e su e giù e ancora e ancora e finalmente l'acqua scorre a getto dal grosso tubo curvo: trasparente, fresca, tanta, in un getto cristallino e si beve e poi ci si lava il nero del fumo dalla faccia di quando mi affacciavo dai finestrini del treno in corsa ad occhi sgranati e ridenti per controllare ancora le curve e i rettilinei del percorso. I binari, lunghissime barre di ferro nero sulle traversine di legno e la campagna, arsa e secca, ma assolata e coperta dal cielo celeste dappertutto. Poi si camminava un passo dopo l’altro, coi pacchi sempre più pesanti, una salita, una curva, una piccola cappella con la madonna sbiadita e lo stradone e ancora una faticosa stradella. Intorno a noi, una campagna deserta e rada di alberelli e finalmente il curvone e la stradina terrosa e ai lati continuamente muriccioli di pietre asciutte una sull'altra, quelle di sopra qualche volta cadute. Il primo verde che si vedeva erano i cespugli bassi e con le foglioline tonde e scure, i capperi coi fiori bianchi pieni di fili chiari e tutti polverosi della stradina. Ci si avvicinava sempre di più alla casetta a metà collina. Tutte le persone, scese dal treno con noi, erano sparite da tempo, a gruppi si erano avviate ciascuno alla sua casa. La stradella era deserta: io la nonna e i pacchetti con lo spago giallo. Nonna Giuseppina aveva sempre un sorriso tenero e forse remissivo e i capelli lisci, non sudava mai, lei. Il berretto rosso del capostazione, la paletta per segnalare la partenza, il fischietto di metallo lucido tra le labbra, tutto finito, tutto lasciato alle spalle. Io correvo e la nonna s’innervosiva: aspettami, non andare avanti.
   Quanta pazienza nonna per questo nipote che ogni estate diventava per giorni e giorni, settimane e mesi un ospite figlio e avevi un altro figlio, mio zio, ancora bambino come me, pochi anni di più. Quanti figli, avevi, nonna? E quanti non avevi più. Tanti vivi, uno morto piccolo e forse un altro, lo avrei saputo anni dopo ma ora i capperi e la stradina da finire una curva ancora ed ecco la collina: il viottolo stretto e ripido, tutto anse. Ognuna, nota: un formicaio lì, una roccia enorme lì, ed ecco la sentinella. Un gelso basso dai frutti rossi aspri e dolci col succo che si schiaccia sulle gote e sembra sangue (ma vero sai?) le foglie sono ruvide, seghettate e scurissime, il tronco, come un grosso palo bruno dritto e liscio. La casa, che non si doveva guardare, di lato la scaletta di pietra e calcinacci con sotto il pollaio e dietro più su la ‘ittina’ e, finalmente la porticina di legno colla serratura di ferro e il chiavone nero e il mandorlo lì davanti ad aspettarmi col ramo lungo su cui legavamo le corde dell’altalena. Era la prima cosa che volevo: quella tavoletta di legno rinforzato e le corde e via su e giù, quante volte, e il ramo cigolava ma non si lagnava. Subito i sandali si coprivano di polvere grigia. Quasi nel silenzio, sicuramente in solitudine.


Amalia


     La casa di zia Amalia, moglie di zio Totò e madre di Pippo Ballotta e Marilù Ballotta, aveva i pavimenti di ceramica ed era odorosa di pulito con alti mobili scuri ed eleganti, tanti libri e un salotto misterioso dove non si entrava mai. Zia Amalia mi badava spesso quando ero piccolo tipo attorno ai quattro cinque anni e mi cantava e mi cullava tra le sue braccia enormi e morbide, sul suo petto immenso e mi diceva: vai da nonna Fina a farti dare il trucco. Io andavo da nonna Fina che abitava due piani sotto, bastava scendere le scale ma io avevo paura degli scarafaggi, ce n’erano di enormi ma erano di più a casa mia, nel palazzo dietro l’angolo. Aspettavo, pazientemente, dopo avere bussato alla porta di legno scuro, mi facevano entrare e mi sedevo e aspettavo pazientemente che

qualcuno mi desse il trucco; ma il tempo passava e nessuno mi dava niente. Io dicevo: “Zia Amalia vuole il trucco… Quello rosso per la bocca”, ma, nonna Fina, niente. Mi spazientivo e, orrore degli orrori, venivo mandato nello studio silenzioso di nonno Fifì. Lui stava seduto con la papalina blu a ghirigori di fili dorati, e io, sopra un sedione davanti alla scrivania, dovevo stare muto, totalmente. Mi perdevo allora in un fermacarte davanti al mio naso: una bolla schiacciata di cristallo, con dentro paesi, città, universi, rossi e blu, solitari. Macchie di colore. Se fiatavo, o stavo per diventare irrequieto il vecchietto, immerso nei suoi conteggi, borbottava:”Zittiti, camurrusu!”. Zia Amalia, aveva un enorme gatto rossiccio di nome Maligno, non aveva l’età giusta del marito, era più vecchia di dieci anni. Anche Pippo avrebbe sposato una collega torinese, alta e bionda, più vecchia di dieci anni, Marù. E non hanno mai avuto figli, lei trascorreva tutto il tempo all’istituto di bellezza a tirarsi la pelle della faccia, non faceva altro ma giocava in borsa. Marù è morta ed ora Pippo è tornato a Palermo e sta in un ospizio e non se la passa tanto bene, anche Marilù, che abita da sola, stava per morire, ma ora sta meglio. I due fratelli non vogliono abitare insieme perché si vogliono troppo bene. Cantami Amalia, chiedevo supplicando ed era dolcissimo sentire il suo canto perché non mi aveva mai né cantato né cullato nessuno. Notizia di qualche ora fa: Marilù conclude la sua solitaria vita terrena allietata solo dai famosi Saladino, famiglia perennemente confusa nella mia infanzia sia con il “feroce saladino” (figurina introvabile dei dadi da brodo) sia con il fortunato Aladino, ritrovatore di tesori inestimabili. Questi parenti erano molto ricchi e una volta, Marilù ci fece vedere a me e a mia moglie una conchiglia con un bassorilievo sacro tutto in madreperla, antico.
Zia Amalia e i suoi figli non ci sono più, anche Pippo è morto per un collasso diabetico. Mi dava certe pacche fortissime sulle cosce scoperte dai pantaloncini e tutti ridevano al mio lamentarmi. Facevano proprio male.

Lettera ad un papà sconosciuto


Caro papà la notizia mi è giunta solo in questi giorni e continuo a non capire le feroci litigate fra te e la mamma, facce stravolte e urla, in cui sono cresciuto, male, sfiduciato e senza ambizioni, senza mai credere in me stesso. Eppure la casa di Via Canonico Rotolo l’avete comprata con un grosso anticipo che erano tutti soldi tuoi della guerra e della prigionia ed allora perché le liti a fine mese con uno stipendio misero diceva la mamma ed io non ti stimavo per niente e tu ti distruggevi la faccia a schiaffi e ti mordevi le mani a sangue ed io come potevo rispettare uno che la mamma non rispettava mai. Adesso ho cinquantacinque anni e tu non ci sei più da quasi tre anni e non ci siamo mai né capiti né amati. Emerge uno strano ricordo, la voce di mia madre che dice : ho dovuto proteggerti dal suo amore eccessivo . Cara la mia mamma. Mi hai protetto tanto bene che non mi è arrivato neanche un filo di calore e sono cresciuto gelido e diverso, incapace di vero amore io pure. Quanta confusione .

Oggi è l’anniversario della tua “Dipartita” avvenuta quattro anni fa 1996, ti scrivo una lettera ovunque tu sia e qualunque cosa tu sia divenuto.
Mamma spera ancora nel miracolo ed io cerco di assecondarla ma ciò che non si  è costruito in tempo, quando si doveva , non si riesce mai più a rabberciarlo.
Io ricordo quelle poche volte che ti chiedevo di rimboccarmi le coperte e mi veniva un brivido alla tua vicinanza, o ancora prima quando sul lato nascosto del seggiolone facevi apparire per magia un piccolo dolce e ancora la scatola di legni piatti colorati di giallo e rosso e verde e blu a rombi e quadrati e rettangoli. Giocavo per ore, da solo, sul pavimento della stanza da pranzo; col raggio di sole e il pulviscolo dorato galleggiante per aria ed era un incanto silenzioso. Ricordo. 
Quando tornavi, cantando, salendo le scale, le magiche parole della fata di Cenerentola ed eri felice. Durava poco. C’era forse un destino che aveva deciso per noi solo dolore. Oggi alla messa, mamma era elegantissima, così mi dice Mari. Più tardi mi ha telefonato per sapere se la rosa al cimitero l’avessi portata io. Ma io non credo che esista un altro luogo oltre quello in cui viviamo. Ciao papà ci risentiamo un'altra volta.


Un Natale anni 60


Altro che neve! Da noi dicembre arrivava con un po’ di fresco e basta: il cielo era sempre azzurro, poche le giornate di pioggia ed il cappotto poteva ancora aspettare chiuso nel buio dell’armadio. A scuola c’era come un lieve brusio in più, stava per arrivare la sospirata vacanza lunga quella che ogni anno ci portava all’anno nuovo.
Trascorrevamo quelle feste a Caltanissetta con i nonni; io, ospite dei Pinelli, e papà e mamma dai nonni, per Natale. Ma la notte dell’ultimo giorno dell’anno si passava con i vicini di casa, a Palermo. Tutto il palazzo entrava in ebollizione: c’era da definire in quale casa ci saremmo riuniti e il menu. Precedevano acquisti e scelte, lunghe trattative tra la signora Iodice e la signora Rossitto, tra mia madre e la signora Leto e, prima che morisse di cancro, anche la signora Le Moli. Un trabiccolo a motore portava frutta e verdura dallo scaro, non molto lontano da casa; seguiva la divisione, la pesata, con i vari gruppi familiari che avevano partecipato. Veniva lasciata la quantità che sarebbe servita per fare un’enorme macedonia per il pranzo di natale. I tortellini da fare in brodo venivano acquistati da qualcun altro, non so chi, la carne macinata, di maiale, per fare delle criticatissime salsicce, compito della mia brava mamma, la compravo io dal macellaio di Via Libertà. Il lambrusco e la frutta secca era roba da uomini: sicuramente il baffuto zio Leopoldo Jodice, professore di educazione fisica e tabaccaio ed altro. La preparazione della macedonia era uno dei momenti più simpatici, eravamo in quattro o cinque tra ragazzi e ragazze a lavare la frutta e poi a sbucciarla e tagliarla in piccoli pezzi: Silvana dai capelli castani e gli occhi un po’ sporgenti da folle, Gabriella mora con gli occhi grandi e belli, Eliana dallo sguardo scuro e le labbra sottili ,io il solito ciccione sempre pronto a dire qualche spiritosata, Claudio lungo lungo con gli occhi tristi ma un sorriso dolce, Letizia rotondetta e silenziosa. Enzo, Fulvio, Maria Teresa più grandi di noi ci guardavano da lontano e poi sparivano. Fulvio era già innamorato di Maria Teresa, ma , bassetto e rossiccio come era, non aveva alcuna speranza e poi lei, bellissima, era già la fidanzata di Fabio Rocca , ( poi sposò un altro in quattro e quattr’otto e sparì nella lontana Chieti ). A me piaceva Gabriella ma sposò Enzo. Iniziavamo a sbucciare le arance e poi le mele e le pere, poi tagliuzzavamo i pezzi grossi in pezzi piccolissimi e le mani colavano di sugo di pera di arancia di mela. Alla fine irroravamo di succo di limone e alla fine tanto zucchero bianco e scivoloso e si mescolava. In segreto zia Franca aggiungeva il liquore: maraschino profumato e oleoso. Veniva poi il rito chiassoso delle sedie e dei tavoli portati dalle case altrui e l’apparecchiata del lungo tavolone che doveva contenere 6 Iodice 3 Davì 4 Rossitto 4 Leto 2 Le Moli 3 Santucci e poi altri ancora. Eravamo a volte 20, a volte 22 dipendeva dagli anni. Tovaglie, piatti, posate, tovaglioli ogni famiglia portava i suoi. I segnaposti li preparavo io. Ritagliavo da un cartoncino bianco tanti rettangoli e scrivevo i nomi e facevo accanto al nome un disegno semplice : una candela accesa, una foglia di pungitopo con le palline rosse , un nastro annodato a scocca tutto rosso , una palla di natale colorata , un angelo con l’aureola e le mani giunte e la bocca aperta in un O di canto ,un piccolo albero di Natale tutto verde. Una volta misi i tovaglioli bianchi a forma di grosse candele e sopra un cartoncino ritagliato a fiammella, colorata di rosso al bordo e di giallo al cuore. Quando alla fine, il lungo tavolo era apparecchiato e decorato era proprio una meraviglia a vedersi nel salone di casa nostra che era proprio grande perché avevamo fatto abbattere una parete anzi due per fare un grande ambiente a forma di elle.

Un Natale anni 90


Trascorreremo il Natale a Dobbiaco e ci resteremo fino alla notte di fine d’anno e anche Capodanno ed oltre, con i nostri amici di sempre, auguri e bacioni a tutti voi, ciao”. Strana telefonata quella degli zii questo fine ’98, quando mai telefonarmi loro per primi e così in anticipo rispetto alle feste di fine d’anno. Gli zii nordici, nel contesto familiare della mastodontica e granitica famiglia della nonna, i potenti e ricchissimi Amico di Caltanissetta, risultavano sicuramente in prima posizione a causa della loro meravigliosa e immensa villa (con riserva di caccia! ), sita in quel di San Quirino, provincia di Pordenone, nei pressi della base aerea missilistica  americana di Aviano. Zio Franco attempato ma arzillo pilota spericolato di un camper (che dopo c’è solo quello degli sceicchi arabi), era stato un bancario, palermitano per poco, genovese per tanti anni e poi pordenonese, a poco dalla pensione, adesso con villa e connesso amico generale e annuale riunione con compagni di scuola. La ricchezza va mostrata! Ora con cane Brick tanto abbaiante e sostitutivo dei nipoti allontanati dalla nuora Adriana che gli aveva rubato il figlio unico Sergio, mio cugino dai lavori tanto misteriosi quanto poco duraturi. Zia Titi, la zia diretta compagna di una mia grande sventura quando avevo pochi anni e ci ustionammo insieme, bruciature di terzo grado. Cattivo, cattivo, io che, tra le sue braccia, a due anni e sedici anni lei, mi buttai addosso un pentolone di acqua bollente.  Cattivo cattivo io io io sempre io cattivo. Vecchia, rugosa e secca, denominata dal povero marito adolfetta, la zia. Avevano trascorso il giorno di natale soli perché i genitori di Adriana stavano male poverini, questi fruttaroli che gli avevano rubato il figlio d’oro. Zia Mariolina questa estate e anche in autunno era stata molto malata a causa di una potente discopatia che la costringeva a letto per giorni e giorni: massaggi e pillole e riposo l’hanno quasi raddrizzata ma….non si può scendere a Caltanissetta a vedere i cari nipoti figli di Saro e Nora la ricca ereditiera, orfana di padre da poco ma con madre completamente in possesso del patrimonio e dell’anima della figlia, quella strega paesana. Quanto amore per il quindicenne Gabriele sempre malato e muto fin dalla nascita e la carina Rossella diciassettenne e muta anche lei fin dalla nascita come forse anche la madre. Palazzi a Licata e ville e case a Caltanissetta e una enorme tirchieria nei confronti dello zio scialaquatore di patrimoni, a carte e affini. Saranno cazzi suoi dico io! ”Pensa che prima del matrimonio ha fatto fare agli sposini la separazione dei beni”. Insomma quest’anno le tre sorelle, la triade, avevano deciso per la gran riunione a Roma. Naturalmente, lasciando all’oscuro di tutto me e la mia consorte perché dovevano prenderlo nel culo rispettivamente nell’ordine:
Maria Grazia, giovane vedova ottantunenne inconsolabile,che avrebbe dovuto non solo ospitare i figli di Saro a casa sua , ma prestare la macchina (è tutto mio! È tutto mio!) a Titi e Franco per l’avanti e indietro dal Campeggio (la polvere del nonno si rivolta nella bara bianca).
Nitto che avrebbe dovuto comprare sedie ed altre cibarie per la notte del 31 e il capodanno e dimostrare ricchezza e inventiva a palate.
Saro, costretto in extremis ad accettare l’invito atroce a Roma, chissà quanti “picciuli haiu a spinniri e lu viagra? E suppurtari mugghieri e figghi!”
Nora …..non conta.


Lettera ad Aldo


Se mi alzo da questa sedia a rotelle, da vecchio invalido, e apro la porta del balcone ed esco al sole e con le mani aggrappate al ferro,grido ondeggiando avanti e indietro al balcone del palazzo di fronte : “Aldo, Aldo, Aldo !”. Se. Allora dalla sagoma scura del balcone con tutto intorno la pietra chiara tu apparirai: un ragazzetto magro e sorridente col ciuffo nero lucido e gli occhi grandi e scuri e le ciglia lunghe e i denti bianchissimi sul volto, oliva chiarissimo, e dei peletti leggeri tra il labbro e le narici frementi. Il cuore mi si aprirà in due metà perfette, muscolo ancora adatto a dar forza a un sangue giovanissimo, e zampillerà, gioco amore e amicizia tutto insieme in una totalità mai più trovata seppure inseguita per tutta una vita. La stretta via antica rimbalzerà le nostre grida e i racconti e le promesse, riderà dei nostri calzoncini. Abbandonerò la mia sedia da paralitico e, come facevo sempre, spalancata di scatto la grande porta di casa mia, precipiterò il mio corpo giù per gli alti gradini e infilerò con impeto guerresco il tuo portone e salirò col fiatone, subito spento, un piano e aspetterò che tu apra la porta della tua casa piena di fratelli e sorelle per me, figlio unico. Avevi un fratello più alto di te, col viso bianco, ed uno più piccolo coi riccioli biondi, che giocava con noi, e una sorellina col busto di gesso che ci guardava da lontano, una madre bellissima dai capelli neri una nonna e tuo padre, un vigile urbano, magro e alto. Nella tua casa semplice e povera pochi mobili ma sorrisi e tanto amore, non   come la mia. Il tuo ingresso con la porta chiusa diventava una nave spaziale e due sedie davanti alla specchiera i posti di pilotaggio e ….. l’universo intero ……lo spazio stellato …..l’avventura, il coraggio il vuoto, il precipitare, il muoversi con lentezza. Si atterrava e si veniva allo scoperto sul nuovo pianeta ed allora ecco lì un mostro da eliminare ed un altro ed ancora un altro e gridavamo e sudavamo e via a storie che non finivano mai…..finché dovevo tornare alla mia casa silenziosa e deserta….. ad attendere altri mostri, questi veri che urlavano e si mordevano le mani e si strappavano i capelli fino a sanguinare e colpivano con la testa il muro fino a che chiazze rosse non …..dove potevo rifugiarmi forse sotto il tavolo o forse nella nicchia del credenzone o dello sparecchiatavola o dalla vicina di casa. Queste cose tu Aldo non le sapevi, ma forse vedevi il materasso, bagnato di piscio esposto al balcone ad asciugare, così lo sapevano tutti per strada e la mia umiliazione era più feroce. Tu eri l’amico che giocava con me; preferivo raccontare al gatto, le mie tristezze. Crescevamo e ci eravamo promessi di mostrarci i peli neri che ci venivano su in una zona sotto l’ombelico dove fino a poco tempo fa non c’erano, io mentivo, non ne avevo, forse tu, no . Non ce li mostrammo mai davvero non ne abbiamo avuto il tempo. Da lì a poco io e la mia ‘famiglia’ ci saremmo trasferiti in una zona lontana, in un palazzo nuovo, in una casa tutta nostra, ti invitai una volta e venisti, ma io ero ormai un ragazzino borghese che mostrava la  sua casa moderna e piena di lussi a qualcuno che non ho più visto per….oltre quarant'anni , né pensato fino a qualche notte fa tra una e l’altra di quelle infinite “pipì” che ormai non faccio più a letto ma quasi. Le tue gambe lunghe e magre color oliva chiaro, la tua pelle liscia e i tuoi denti bianchi nel sorriso, quanto li ho cercati e stavano lì in fondo alla mia mente pronti a riesplodere con l’odore pulito di allora.
Ti ho ritrovato finalmente. Dal millenovecento sessanta dovevamo arrivare al duemila!

Quando sono nato


La seconda guerra mondiale, quella con Germania, Italia e Giappone da una parte e gli inglesoamericani e i russi  dall’altra, tanto per intenderci, non era ancora finita ma, da li a pochi mesi: sbarco in Normandia dall’alto, sbarco in Sicilia dal basso e bomba atomica su Hiroshima. Ciò avrebbe concluso quasi tutto, tranne che per pochi strascichi senza importanza, che continuano ancora oggi, più di sessant’anni dopo. Nella piccola cucina di nonna, la pentola di grigio alluminio bolliva da qualche minuto sulle braci di carbonella, quando Mara, una bellissima ragazza intorno ai vent’anni, aprì lo sportello vetrato dello “stipo”  per prendere un cartoccio di carta pasta da cui spuntavano i tanti fili dorati degli spaghetti. I capelli di Mara erano una cascata morbida e lucida che si concludeva al di sotto delle spalle con due onde semicircolari, una più minuta e l'altra più larga,  brillanti per la luce che entrava dalla grande finestra al suo fianco. Spaccò in due parti i lunghi spaghetti e li tuffò nell’acqua bollente. Con la mano bianca dalle lunghe dita affusolate prese un pugno di sale dalla scatola attaccata al muro e lo gettò tra i vapori della pentola, poi girò e rigirò accuratamente la matassa che si era formata, una volta che la rigidità degli spaghetti crudi si era arresa alla potenza deformante dell’alta temperatura. Un rapido scotimento della fronte sollevò, per un istante, la morbida ala luminosa dei capelli, rivelando due splendidi occhi verde azzurri pieni di sogni e di ansia. Nella stanza accanto, sul gran letto di ferro nero, mia madre, sua sorella maggiore, stava dolorosamente per farmi passare da un luogo caldo e liquido e comodo in uno, freddo asciutto e sconosciuto. I suoi genitori, nonno Gabriele  e nonna Giuseppina, stavano vicino per fare tutto ciò che occorreva fare. Insomma per quel giorno il pranzo fu ritardato e gli spaghetti sfatti, non so che fine fecero. Io, invece, venivo alla luce per la gioia di tutti. Ero il primo nipote  e avevo già alcuni zii di età rispettabile ed uno, bambino di sei anni appena . Indovinate  chi mancava a tutta quella festa del bambino ‘nato domani’, come diceva Pia la figlia del giudice Argento vicini di casa dei nonni a Caltanissetta?ma, è naturale, mancava il mio papà, prigioniero come tanti altri da alcuni mesi( quelli giusti però ) degli Inglesi in Africa dove aveva l’attendente, la negretta e buon cibo in scatola. Quel giorno di tanti anni fa saltare un buon piatto di spaghetti anche scotti, in periodo di borsa nera, deve essere stato una sofferenza per tutti. Ecco perché, tutti i parenti che se lo ricordano, mi dicono ancora oggi: era mezzogiorno quando sei nato tu e non ci hai fatto mangiare quel giorno. La mia prima colpa fu quella di avere causato la fame in casa nostra. Dalla nascita.
Forse, non potevamo starci, tutti insieme nella casa dei nonni ed in effetti eravamo proprio tanti in tre stanze più bagno e cucina al pianterreno della palazzina incis alla periferia della città. Fu per questo che, dopo alcuni mesi, mi ritrovo a Palermo in casa della nonna paterna in mezzo ad un'altra folla di zii e cugini e cugine. Nella natia Nissa, in quelle tre stanze dormivano studiavano si lavavano preparavano cibi : il nonno, la nonna, Mara, Titi, Dora, Nitto e Saro. Certamente, io e mia madre, eravamo di troppo o forse il lavoro era più facile trovarlo a Palermo, chissà. Nella grande Palermo in una casa al pianterreno di corso Calatafimi stavamo con nonna Matilde, zia Franca, zio Pietro e i loro figli Pippo, Zina, Matilde, Lidia ed Elda che era nata contemporaneamente a me. Ci chiamavano i gemelli e stavamo in una grande cesta sul davanzale della finestra sulla strada.  Nonna Matilde ricamava o cuciva e piangeva la morte del figlio Ugo appena avvenuta , le cuginette più grandi giocavano e ridevano, zio Pietro cucinava. Zio Pietro aveva una bella e grande panetteria ,dove la gente andava e veniva per comprare quel buon pane fragrante di forno e biscotti e dolcetti ed altro ma sembra che tutte le entrate fossero dalla moglie, zia Franca, considerate sempre e solo guadagno dunque in poco tempo i creditori, tornati più e più volte alla carica, mandarono tutto in fallimento. I denari se ne erano andati in passeggiate in carrozza, in abiti  eleganti e sprechi goderecci di vario genere. Torna mio padre dalla lunga prigionia, forse io ho circa due anni, qui i racconti e i miti familiari si fanno confusi ed iniziano leggende : la porta si aprì ed io riconobbi  quell’uomo e balbettai “papà”. Il bell’ufficiale di cavalleria coi baffetti neri si precipitò sulla bella moglie, l’abbracciò e me la rubò e, da allora, fummo feroci avversari. Chi era quell’essere estraneo che si permetteva di togliermi completamente l’attenzione dell’unica persona che fino ad allora si fosse occupata di me? Chi gliene dava l’autorità. Privarmi del calore delle braccia di mia madre e del suo morbido seno!Cominciai ad urlare tutte le notti. Abitavamo già per conto nostro nell’appartamento pieno di scarafaggi di via Carella, la casa era grande e fu subito fatta la scelta di mandarmi a dormire nella stanza più lontana dall’alcova dei giovani sposi(35 lui 28 lei). Avevo pochi anni. Nei miei incubi più atroci, vissuti come sogni che avrebbero potuto essere realtà, piango e mi dispero nella stanza delle rose. Una tapezzeria stinta, da bordello, con grandi rose al pieno della fioritura, bianche rosse rosate, dava il nome a quella stanzetta lontana dalla stana da letto dei miei. Mi alzo dal letto sfatto e bagnato di piscio e mi trascino nell’ingresso e nel lungo corridoio fino alla porta chiusa e rimango per terra a implorare che mi si aprisse e tra singhiozzi silenziosi mi addormento acoltando gli strani gemiti e rumori provenienti dalla stanza da letto dei miei…… nemici . Imploravo compagnia e protezione avevo paura del buio e della solitudine ma era solo all’alba che aprendo e trovandomi davanti alla loro porta mi permettevano di stare con loro nel letto grande e caldo, qualche volta. Continuai a pisciare a letto tutte le notti per anni e anni ma l’unica risposta a questa angosciosa richiesta fu una serie di minacce tipo: ti bruciamo il pisellino, vuoi che lo sappiano i parenti, vuoi che lo sappiano i vicini , vuoi che lo sappiano tutti. Il materasso puzzolente e giallognolo veniva esposto al balcone sulla ringhiera di ferro nero, a ludibrio e asciugatura, ma ci vollero parecchi anni prima che l’inconveniente fosse risolto, autonomamente, verso gli otto o nove anni. Due consolazioni: un gatto che ascoltava tutte le mie lagne e masticare, mangiare, inghiottire qualunque cosa mi desse il piacere negato dalle persone a me più vicine, che intanto e per altre ragioni litigavano ferocemente tutti i giorni urlando e ……..nel parossismo dell’impotenza di non potere reagire con un solido schiaffone alle insolenze di mia madre, mio padre rivolgeva la grande violenza repressa su se stesso e cominciava a mordersi a sangue le mani e le braccia poi sbatteva la testa al muro finchè la fronte e le tempie divenivano violacee e intrecciate d’una serie di venuzze nere…….io mi nascondevo dove potevo a volte sotto il tavolo della stanza da pranzo a volte dietro i divano ed attendevo la fine di queste scenate in certi periodi anche giornaliere….naturalmente la colpa era sempre mia….Il Dio denaro mieteva già le sue vittime “Io guadagno più di te “gridava mia madre”come faremo col tuo misero stipendio”e mio padre si lacerava capelli e viso e intanto mandava danaro di nascosto a sua madre: nonna Matilde.  


Il custode


Finalmente era qui,con noi, intorno, pronto a gelarci le gambe e le mani. Freddo. Notte.
Nel buio mi coprivo con la coperta fino sopra gli occhi all’attaccatura dei capelli, solo così non potevano assalirmi tutti quei mostri neri, muti e paurosi.
L’assenza e la lontananza, di qualcuno che mi amasse, diventavano corpi solidi, terribili per la loro insistenza. Comunque l’inverno tornava sempre. A volte puntuale a volte inatteso; come adesso a distanza di molti anni. Ma c’è una solitudine che non viene colmata mai, come un fosso nella sabbia che pensi di riempire d’acqua di mare per fare un laghetto e non si ferma quell’acqua, si prosciuga continuamente. Nel mio cuore un’arsura mai spenta, mi addolora sempre e il sole è sempre lontano e, sempre, impietoso, brucia e asciuga. E’ come sedersi su uno scoglio tagliente e fingere di guardare l’orizzonte. Freddo.
Custode presuntuoso che immagina di non invecchiare: negando che il tempo trascorra intorno. E si addormenta solo se le grandi mani del padre hanno rimboccato le coperte sotto al materasso, è un attimo, meno di un attimo, poi la sua presenza baffuta svanisce nel dolore dell’assenza e nel silenzio della notte gelida. Passerà molto tempo perché ritorni la magia esplosiva del suo canto felice, lontano, rarissimo. Mia madre  considerava un grave peccato la felicità e dunque il canto di mio padre. E’ un gioiello prezioso da celare nascosto nelle pieghe profonde del cuore, per nutrirsi in tempo di carestia. Il ricordo.
Io lo sentivo tornare quando udivo il suo canto sulle scale: la formula perché, per incanto, Cenerentola potesse diventare una principessa e una zucca, una carrozza d’oro. Ed io imparavo la gioia che dà il divenire altro da sé, ma ancora non potevo rendermene conto: colui che mi rubava mia madre diventava felice e dunque innocuo. “Magica bula , bibbida bula, bibbidi babbidi bu, fa la magia tutto quel che vuoi tu, bibbidi babbidi, bibbidi babbidi, bu…..” e la carrozza volava al castello e la mia mente volava fuori dalla sua triste vita e correva ad aprire la porta per abbracciare il padre . Ma durava poco: le liti furibonde e sanguinose dei miei genitori spegnevano in me tutti i giorni la gioia di vivere.

Prima che giunga la notte


Occorre mettere in ordine gli oggetti sul tavolo e nella dispensa: allineare i pacchi di pasta e di riso e il sale e lo zucchero  e l’olio e un enorme piatto con una montagna di sapone scuro molle gelatinoso ambrato e trasparente. Apri il cassetto che scivola male sui listelli consunti e prendi un pezzo di pane quasi secco. Prima che giunga la notte. In braccio al nonno guardi gli occhiali lucenti e lo sguardo azzurro e segui i suoi movimenti con attenzione. Seduto sulla sedia , le gambe penzolano nel vuoto; la nonna, accanto, sorride col porro peloso sopra la bocca, grinzosa, il nonno ha preso una grossa fava fresca e sottile taglia il filetto lasciando attaccata la testa poi con un altro taglio fa la bocca ed il frate verde apre e chiude le fauci sorridenti cantando una filastrocca dimenticata. Non c’è nessun’altro intorno a noi, qualcuno si occupa solo di me e io guardo strano poi forse,sorrido.

Stasera si prega San Giuseppe e si fa la “novena” seduti intorno all’immagine, dalla bella barba bianca, adorna di arance e foglie verdi sul tavolo della stanza buona, ci sono le vicine e io con la zia Mariolina, ma lei non ci vuole stare, si annoia e dopo un po’ andiamo a fare una passeggiata. Gli occhi verdi della zia brillano e sorridono. E’ inverno e fa freddo.

In ogni stanza gabbie d’uccelli canterini e il nonno va da una all’altra e mette il mangime e su ogni davanzale cielo azzurro e vasi di basilico a foglia grande e media e piccolissima, tutto profuma e cinguetta. E’ estate e fa caldo.


Titti


Quale fosse la precisa ragione che mi aveva portato lì sul pianerottolo gelato, non mi è concesso di ricordare. Quello che volevo è sicuro: in punta di piedi alzarmi fino al campanello della porta della signora Guttoso e suonare fino  a che non mi avrebbero sentito e aperto e finalmente salvato. Avevo trascinato il pesante lettino fin sulla soglia e poi fuori e ora davanti alla porta amica. Quando la signora mi vide ebbe un sorriso triste e si mise a piangere silenziosa, chinandosi per tirarmi su tra le sue braccia, un bambino di tre o quattro anni. Nella sua casa tutto era pulito e pieno di luce e si respirava un’aria serena come di felicità. Nella mia, no.


Il bambino nato domani


Fossile, prigioniero d’una pietra grigia, non riesco mai nonostante tutti i miei sforzi a uscire nel mondo reale: io non sono mai nato. Mia madre sicuramente ha desiderato di tenermi dentro di se per l’eternità.
Erano giorni difficili quelli, la guerra era appena conclusa ed il nemico americano s’era persino rubato mio padre dal felice sfollamento a Ficuzza. Prigioniero degli alleati inglesi. Sarei nato senza padre e l’avrei rivisto e rifiutato dopo alcuni anni. Io non potevo e non dovevo nascere ed, infatti, io non esisto e mi arrotolo sempre nella mia matrice fossile privata: la mia infanzia, i miei dolori il passato le fotografie. Gli altri il mondo la società persino le strade i marciapiedi il cielo, semplicemente non esistono. Pia, la figlia della signora Argento, la moglie del giudice, chiedeva sempre a mia nonna: quando nasce il bambino , e lei rispondeva: domani, domani. Quando finalmente , in casa , venni alla … luce, per i vicini di casa fui il bambino nato domani. Questo domani ancora mi insegue come se ancora non fosse arrivato ed io non esistessi.

Zia Mariolina


Cinema, gialli mondadori e settimana enigmistica queste nell’ordine le prime conquiste sulla strada della libertà.
Due film di seguito e gli occhi pieni di sogni. Mi presentò lei a Lia ed Annamaria Mercurio,le due belle ragazze dei balconi vicini ai miei  in via canonico rotolo quinto piano. Mara era innamorata dell’amore, contava i cavalli bianchi e al centesimo sarebbe arrivato il suo principe azzurro. Pure donna Concetta la “lavannara” di nonna Giuseppina trovava marito e lei no. Era brutta e puzzava donna Concetta, Mara era bellissima non come la mia mamma ma pure bellissima. 6 gennaio 2002
Compie 80 anni serenamente festeggiati in casa di nonna Maria Grazia dai Pinelli e Nitto e Giulio con Fabrizio.  Caduta finale di specchio ovale, malamente poggiato su mobiletto in ingresso affollato di parenti in saluto alle ore serali. Un piccolo squilibrio e l’oggetto cadde con fragore. Scena di crisi e panico di una nonna 84enne disperata. Larga spargitura di sale e pernotto giorgeo calmarono la nervosissima nonnetta d’assalto. Guido sta bene.



Pane e panelle


Valenti, Castiglia e altri compagni, prima media.
Palermo. Scuola Media Garibaldi ( Villa Gallidoro) e Giardino Inglese.
Anni 55, estate, ultimi giorni di scuola.

Mescolati nel ricordo sapori desiderati e sapori rifiutati.

Le bidelle stavano in un angolo della gran sala circolare dagli alti soffitti decorati da cui si dipartivano i lunghi corridoi con le classi. Tenevano in un gran cestino di vimini coperti da un tovagliolo a quadrati bianchi e rossi, gli appetitosi e tiepidi panini con le panelle.
Ogni focaccina, dorata e sparsa di semi di cimino, conteneva tre panelle gialle. Odore di frittura. Trenta lire, che io non avevo mai. A casa non avevo neanche il coraggio di chiederle quelle trenta lire, e oltretutto era un peccato grave per un pacchione come me.
Pacchione, era l’offesa più oltraggiosa e la ricevevo spesso dai miei compagni non certo teneri.
Al mattino rifiutavo l’enorme tazza di caffèllatte per il velo rappreso che si formava sopra e che puzzava di bricco bruciato e all’orario dell’intervallo scolastico avevo fame.
Elemosinare un pezzo di panino era troppo umiliante e così una volta ne inventai una proprio buona. Trafugata dai cassetti dell’ufficio di mio padre, una lavagnetta magica, la portai a scuola per venderla a qualche compagno e ricavare quelle trenta lire per l’agognato panino.
Con una punta di plastica si poteva scrivere o disegnare sulla superficie trasparente che portava sotto una carta carbone in modo che la traccia rimaneva fino a che lo scorrere di una bacchetta nascosta non cancellava tutto e si poteva ricominciare all’infinito. Era un rettangolo grande poco più di una cartolina, ma ebbe l’effetto sperato. Erano le prime e costavano più di trenta lire, ma a me bastava. Ebbi così il mio primo pane e panelle mangiato con goduria e quasi di nascosto. Naturalmente da lì a poco i miei traccheggi ben notati dalla professoressa di turno furono comunicati in famiglia dove ebbi un lisciabbusso indimenticabile.
Né ebbi per il seguito le trenta lire, considerate un lusso inutile. Naturalmente a pranzo la fame mi faceva ingozzare di maccheroni al sugo, colanti d’olio e frittate con patate. Il tutto, bruciato e immerso in litri d’olio. Ottima dieta per il mio adipe in crescita. In classe i banchi erano piccoli e stretti, forse per bambini delle scuole elementari; io quasi non c’entravo e anzi una volta ne scassai uno cascando per terra, in mezzo alle risate di tutti. Non ero stato sempre grasso. Fino a cinque anni ero uno stecco e non volevo mai mangiare. Ero gonfiato alla mensa delle suore della refezione scolastica, nella scuola elementare dove mia madre era la maestra e dove avevo fatto con lei la prima.
All’ultimo banco con davanti tutte quelle pestifere femminucce, umiliato da quello che era stato concesso a mia madre come privilegio: avere il figlio unico e maschio nella sua classe di tutte femmine.
Trascorsi tutto l’anno graffiando il quaderno col pennino intinto nell’inchiostro nero senza riuscire né a fare un segno comprensibile e senza capire cosa stessi facendo.

 Ho imparato a strappare pagine macchiate una dopo l’altra fino a ridurre il povero quaderno ad un sottile strato di fogli senza speranza. Copertine lucide nere con le pagine con le righe strette e larghe e i bordi con le righe verticali per cominciare dentro e non finire fuori.

Le consonanti e le vocali hanno un luogo in cui stanno serene con le loro parti superiori e inferiori contenute e tondeggianti.

Un lungo ballatoio con la ringhiera di ferro nero guardava giù nel cortile con i tavoli della refezione e le suore dai sederoni neri. Un cancello di ferro ad un lato del cortile a cui si arrivava con una breve scalinata, separava un giardino aggrovigliato d’alberi e cespugli. Il cancello era sempre chiuso.

 Quante volte ho riempito il calamaio d’acqua dal bagno e poi ho mescolato con la polvere scura per fare l’inchiostro. Perdevo tempo al rubinetto alto con l’acqua corrente.
Una volta la bidella mi mostrò felice una borsa per la spesa che aveva fatto cucendo insieme tanti triangoli di pelle colorati. Il bidello invece aveva un orologio da polso con un sole e una luna che si alternavano e n’era molto orgoglioso.

Da una scala stretta lunghissima esterna scendevamo in fretta col fiocco blu mezzo sciolto e i colletti bianchi storti, dal piano delle aule all’uscita che portava ad una stradina angusta fino a Piazza Monteleone, dietro l’ufficio postale di Via Roma.

Una ragazzina un giorno urlando sbatté tante volte la testa sul muro di quella stradina fino a morire.

Non ho mai saputo perché, ma ogni volta che passavo cercavo con gli occhi il muro scrostato per avere paura e per rinnovare l’inconsapevolezza.

Ogni inverno trascorrevo almeno un mese a letto con potenti raffreddori culminati spesso in una broncopolmonite. Quello che temevo era la siringa di vetro bollita e col suo ago luccicante, ma più di me la temeva mio padre che in queste occasioni usciva da casa per non sentire le mie urla e i miei pianti. Ricordo ancora intorno al lettone dei miei, nonna Fina e tutti i Guttoso, il dottore e una ragazza che ci faceva da cameriera.

Ora era estate, l’ultimo giorno di scuola, terza media. Stavamo coi compagni al giardino Inglese , un gruppo giocava a pallone io guardavo. Da dietro i cespugli Valenti mi chiamò. Era alto e coi capelli neri ricciuti, sorrideva divertito. Pastiglia stava inginocchiato davanti a lui e teneva tra le labbra il pisello di Valenti e mi guardava coi suoi occhi verdi e grandi. “Vuoi provare anche tu?” mi disse Valenti e pastiglia col pisello in bocca annuiva come a dire , prova che è gustoso.
“no” dissi “se poi mi fa pipì in bocca, che schifo” “Ma no” ribattè Valenti “me lo faccio minare con la bocca e basta”.
Scappai arrossendo mentre quelli ridevano . Le mie gote si erano infuocate.



Natale in famiglia 2005


Cara Maud
giornata con pioggia ghiacciata
Mari con febbre
16  a tavola in una stanza 6 per 4
fettuccine sfatte colanti e insudiciate di un’acquetta rossastra
fettuccine appositamente fatte fare farina 00 ( nel senso di cessus) e acqua di …..
ululati nittei contro tutto e tutti
salsicce ultracolanti sia al sugo sia in altro modo piuttosto misterioso
macedonia di frutta scelta ( mele pere arance inzuccherate in superficie)
scelta forse da un fondaco aut similia
mariolina che ci comunica che fa spesso pipì perché incontinente ( meno male che non ci ha mostrato il pannolone)
vestiari vari uso barboni
ululati che ci comunicano i costi vari di : budello per le salsicce , carne di vitello , il pepe niente per comando di nonna Abelarda, la conserva di pomodoro (una buattina scarsa), guai se mangiate l’insalata russa prima delle salsicce ( non si dovevano per nulla al mondo cambiare i piatti della colla, lasciata da quasi tutti colmi).
olive nere con osso nell’insalata russa di nonna Abelarda
salvati da:
splendidi gamberoni sgusciati dell’ insalata russa di nonna Abelarda
corvo rosso (bottiglia già smezzata)
aranciate e coca cola
panettoni splendidi e biologici dei Pinelli ( criticatissimi dall’ululato nitteo )
io in giacca e cravatta : abito rigato e cravatta bordeaux su camicia blu rigata bianca
i cugini di Milano con doni simpaticissimi
un dito di amaro Averna da una bottiglia quasi alla fine , sbintata.
tempo occorrente al tutto ore 13,30 ore 15,30

Sospetto che la recita tragicomica a cui abbiamo assistito abbia avuto come fine da parte di Nitto di ostentare povertà estrema alla figlia venuta da Palermo in cerca di denari.

cuginpippo



Il piccolo cuoco


Andavo a scuola da solo a otto anni. Qualche volta veniva mio padre a riprendermi ed io lo aspettavo davanti all’ingresso della ditta di zio Saverio che mi regalava un’arancia per farmi stare buono. Guardavo le giovani lavoranti incartare i frutti  con dei fogli di carta velina con la trinacria stampata in rosso e metterle nelle cassette. Mi osservavano e ridevano. Il profumo era fortissimo. Ero in terza elementare con la maestra Leone e siccome ero raccomandato non facevo niente e continuavo a non capire niente di quello che si faceva a scuola. Poi mio padre non venne più a prendermi. Tornavo allegro e spensierato ma triste; una volta riportai dentro la cartella un gattino mezzo morto di freddo. Morì dopo pochi giorni . Saro si mise a ridere forte quando lo trovammo sul terrazzo ghiacciato come una minuscola sfinge con le formiche che entravano e uscivano dalla bocca chiusa. Rideva perché io mi misi a piangere. Mi pareva di essere morto io. Era d’inverno.
Quando tornavo da solo , avevo la chiave per aprire la porta e dovevo mettere la pentola con l’acqua sul fuoco, nella cucina attraversata da scarafaggi neri che mi facevano schifo come a zia Mariolina. Rimanevo solo fino all’una e mezzo, quando tornavano prima mia madre e poi mio padre. Ricominciavano a litigare per i soldi. Come al solito mio padre veniva rimproverato perché guadagnava meno di mia madre che glielo rinfacciava continuamente. Solite scene terrificanti.
Durava tre giorni e non si parlavano, dovevo essere io a fare da tramite.
“Di a tuo padre che…..” “Rispondi a tua madre che….”
Imparai a fare il sugo e poi negli anni a cucinare, ricavando le ricette da un libro con il calendario e una ricetta per giorno cioè 365 ricette.
Una volta affettando del salame mi taglia di sbieco il pollice e me lo fasciai da solo, con un fazzoletto che s’inzuppò subito di sangue rosso. Naturalmente i miei rimasero a tavola  e quando lo seppero non fecero altro che ammirare il mio coraggio. Ho la cicatrice ancora oggi. Mi consolavano un gatto e la signora Guttoso, la vicina di casa. Venivo spesso punito con palettate sulle mani , di numero variabile a seconda della gravità della ribellione. Anche lo stanzino, umido buio e puzzolente di polvere, fu utilizzato dalla mia aguzzina , mia madre, come carcere, a volte per una a volte per due ore. La prigionia si ripeteva tutte le volte che era ritenuta necessaria.
Dalla finestrella accanto a quella dello stanzino, che davano nel “pozzo di luce”, la voce di Titti Guttoso mi consolava piena di pena.
Nel silenzio frugavo spesso in  una lunga cesta del “Genio”, su cui di solito stavo seduto e in cui erano tenute le cose di mio padre tornato dalla prigionia in Africa: l’uniforme , gli stivali e una pistola grigia.
Mia madre teneva la casa sempre piena di polvere e sporca. Non aveva tempo , doveva fare lezioni private, in casa. Per i soldi. Avevamo la casa piena di ragazzini e ragazzine. Per me non c’era tempo che per le punizioni. Matteo Costa mi incuriosì con un affare moscio e lungo che gli usciva dai pantaloni corti, come mi mostrò sotto il tavolo mentre facevano lezione almeno in quattro. Un paio di volte venne a trovarmi nella stanza in cui studiavo da solo, e si mise a quattro zampe come un cane col suo affare bianco e duro teso tra le zampe di dietro. Che risate!


La scalata di monte Cuccio


Domenica notte, buio pesto. Volevo rimanere ancora a dormire tra le pesanti coperte nere; niente, venivo bruscamente tirato giù dal letto, nonostante strepiti, pianti e proteste.
Nel silenzio si compiva il rito della vestizione e dovevo mettere ai piedi due paia di calze di lana e i pesanti scarponi unti di grasso, puzzolente. Zaino di tela militare verde grigio insaccato di maglioni e misteriosi cartocci, borraccia col tappo di metallo colla catenella e frignando, avrò avuto sei o sette anni, trottavo malvolentieri dietro i genitori frettolosi. Strade deserte, cielo stellato e muso incavolato, a piedi raggiungevamo la stazione del pullman per San Martino , nella piazzetta dietro il teatro Massimo. Si aspettava; il mezzo pubblico, uno scassume blu, arrivava dopo di noi. Mio padre fumava la sua serraglio, una sigaretta piatta senza filtro.
L’autista si chiamava Dante e lo conoscevamo bene. Salivamo e partivamo: unici occupanti delle lunghe file di posti. Era la prima corsa.
Ore quattro. Mio padre voleva arrivare presto, il primo. Un’ora di viaggio, Boccadifalco , Monreale e finalmente San Martino. Nebbia, freddo. Neanche il negozietto dove compravamo pane e mortadella era aperto. Un’altra sospensione, seduti sulle panche di cemento, ghiacciate.
Finalmente arrivava una donnina incappottata che apriva la piccola porta e ci faceva entrare nel negozio buio. Accendeva una lampada dalla luce fioca e dietro al bancone affettava mortadella e pane. Prima colazione, mordevo con rabbia e fame quel pane raffermo e lentamente mi riconciliavo col mondo infame.
Il cielo si schiariva tra le nuvole dense e spuntava qualcuno sulla piazza del paese.
All’abbeveratoio delle mucche, dietro il negozio, un getto d’acqua ghiacciata spegneva la mia sete e andavo di nuovo a sedermi, pensando alle fatiche che mi avrebbero raggiunto durante la giornata. Arrivava il momento, al comando di mio padre, di percorrere la breve salita fino alla villetta dello zio Ninno Meli. Scalini alti , abbaiare dei cani e ancora attesa, nel giardino con la vasca di cemento piena d’acqua verdastra. Quella domenica dovevamo scalare monte Cuccio, altezza 1600 metri. Zio Ninno scendeva per primo, seguito dai tre figli, Ferdinando , il primogenito, Elisabetta e Maria Teresa. Zia Carlotta ci salutava dalla finestra coi gerani rossi. Doveva sbrigare in casa e in pollaio.
Zio Ninno aveva portato con sé quella contadina bergamasca fino a Palermo. Avevano messo su famiglia, senza sposarsi, e i Meli, di nobili e abateschi antenati, non avevano accettato quella bella signora dagli occhi azzurri e lo guance rosate, neanche quando erano nati i figli, tutti con gli occhi azzurri e le gote rosse e la carnagione chiara. Gente del nord, da non fidarsi. Zio Ninno era un omone, alto e immenso, con la voce tonante e fumava la pipa. Ne aveva una gran collezione sulla mensola dello sparecchiatavola, nella stanza da pranzo. Prima della guerra, era stato compagno di avventure di mio padre ed erano grandi amici. Forse neanche mio padre amava la chiesa, con orrore di mia madre, beghina già a quei tempi. La piccola comitiva si avviava verso l’alto a passo lento. Le stradine presto si trasformavano in sentieri fino alla prima sosta dopo  un’ ora di cammino. L’acqua sgorgava direttamente da una roccia liscia senza neanche una cannella, che spuntò dopo pochi anni. Riempivamo le borracce, ognuno la sua; si doveva bere solo la provvista personale, pochissime gocce per volta. La salita faticosa sarebbe durata quattro ore, gambe indolenzite , una sosta ogni ora, di cinque minuti, una sorsata e ricominciare in fila indiana. Ero sempre l’ultimo, tra le risata di tutti, specialmente di mio padre che era sempre il primo.
Quella volta ottenni di stare sulle sue spalle per qualche minuto, quando a metà del tragitto mi ero buttato seduto sulle rocce e non volevo più muovermi. Ora avevamo iniziato il sentiero di pendenza lieve, a zig zag, la pineta era sparita da tempo, intorno pietrisco e nient’altro, il sole picchiava forte. Neanche un filo d’erba, neanche un fiore. I piedi bollivano per il calore accumulato e per la stanchezza, ma bisognava andare avanti. Silenzio, il fiato serviva per faticare la lenta risalita del fianco della montagna. “Respira, respira” diceva mio padre. Io pensavo: ma questo è proprio matto e cosa sto facendo, sto respirando o no?
Elisabetta e Maria Teresa ogni tanto mi rivolgevano la parola per consolare questo ragazzino recalcitrante obbligato a una tortura ripetuta. Sognavo di arrivare e togliermi gli scarponi per far riposare i piedi doloranti. Finalmente si arrivava in cima e non avevo occhi per il panorama, sicuramente meraviglioso. Avevo solo fame e nella sosta svitavo il coperchio del recipiente d’alluminio e m’ingozzavo degli ‘ammataffati’ e orribili anelletti col ragù preparati al mattino da mia madre, con rabbia.
Misteriosi sorrisi, per me incomprensibili. Durava poco, la sosta per il cibo. Una bevuta dalla borraccia era un’altra sofferenza: l’acqua aveva preso amaro sapore d’alluminio, come gli anelletti. La discesa, per fortuna, avveniva in un tempo minore, un paio d’ore. Di nuovo la casa di zio Ninno, accogliente e serena. La cena tutti insieme nella grande sala da pranzo, polenta e salsicce al sugo. Ferdinando si spalmava sul naso rossiccio, screpolato dal sole, una pomata, le ragazze parlottavano nella loro stanza, io leggevo un “Topolino”. I saluti, le chiacchiere, il pullman e a casa a dormire triste e stanco. Un’altra domenica passata senza gioia. La mattina dopo, mi attendeva un altro risveglio immusonito e la scuola. Senza riposo, senza sosta. Senza significato.
Anni dopo, Ferdinando, lo scalatore di montagne, cominciò ad amare il mare e nei suoi giorni di riposo dal lavoro d’avvocato, faceva immersioni da sub. Aveva tradito la montagna? Non lo so. La moglie sulla barca lo attese lungo quella volta. Se l’era preso il mare.
Lo trovarono, incastrato con la bombola dell’ossigeno, in una stretta fenditura tra le rocce. Aveva forse inseguito una grande cernia luccicante o l’ossigeno lo aveva addormentato. Chissà. Zio Ninno non volle mai accettare che quel suo figlio maschio, dal corpo muscoloso, fosse sparito nel mondo della morte. Zia Carlotta, che ci raccontava della silenziosa disperazione del marito, precipitato nell’abisso dei sensi di colpa, lo sentiva ancora vivo anche lei. Al mattino presto, udiva i passi di Ferdinando per le scale ed il suo preparare il pastone per i polli. Ogni mattina. Io ricordo solo che Ferdinando sapeva tutto sulle costellazioni e mi raccontava dell’orsa maggiore e di Orione e della stella più brillante che sorge per prima nel cielo notturno e non è una stella ma il pianeta Venere. Aveva gli occhi azzurri, Ferdinando, ed era un bravo ragazzo.



Artemia


La signorina Artemia era sfollata a Cinisi con la madre e la sorella Ortensia. La piccola casa di campagna dove abitavano era circondata da alberi di mandorlo e qualche ulivo.
Quella sera, mentre tornavano dalla messa, parlottando frettolose lungo il viottolo sterrato, s’accorsero d’un tratto che da un mandorlo s’erano levati improvvisi con un gran batter d’ali alcuni passeri scuri. Nel silenzio della crepuscolo, un fruscio, gelò il sangue delle tre donne. Un giovane apparve e le fissò con i suoi grandi occhi neri appena nascosti da un gran ciuffo di capelli scomposti. La madre voleva continuare la sua strada ma qualcosa nello sguardo di lui la bloccò.
“Vengo dalle montagne, non trovo più i miei compagni partigiani, ero venuto a cercare mia moglie che non ho trovato, vi prego fate qualcosa non so dove andare” sussurrò veloce d’un fiato, lo sguardo velato. Al silenzio delle donne, il velo sugli occhi si trasformò in una lacrima, asciugata con rabbia sul dorso della mano. “ Ho fame” supplicò. Fu Artemia a intercedere presso la madre riluttante; era buio, adesso. Lo portarono nella loro casa. Nel cielo nero scintillavano miliardi di stelle. Lo ospitarono, nascondendolo, per più di un mese finché la guerra finì. Una notte era uscito a fumare una sigaretta e una vicina aveva visto la sagoma di un uomo. Intorno alla casa di tre donne! Non lo denunciò, perché Artemia, interpellata dall’amica curiosa, s’inventò una storia. “ Per carità, non dite nulla a mia madre ; è un giovane disperato e innamorato di me, che viene a trovarmi di sera, perché mia madre , non vuole saperne di uomini , in questi tempi disgraziati!” Artemia salvò un partigiano, immolando la sua purezza anzi inventandosi d’averla immolata. Un amore impossibile e una decisione risolutiva.
Zia Artemia, cugina in secondo grado della madre di mia moglie, dunque da lei chiamata zia, negli anni seguenti divenne centralinista in un ospedale e rimase signorina. Piccola e magra , tacchi a spillo, e vestiti colorati, si truccava in modo esagerato: labbra rosse e ombretto blu. Non si lavava mai con l’acqua, ritenuta forse inefficace, ma con l’alcool denaturato, lo spirito. Aveva preso, nel tempo un colore ambrato e la sua pelle era divenuta come la carta vetrata. Viveva con la sorella Ortensia ,che non aveva lavoro. “Date un bacio a Zia Artemia” e i nipoti fuggivano impauriti dalla probabilità del tocco di quella pelle scura e rugosa.
In famiglia godeva di grande rispetto perché era la zia che in tempo di guerra aveva salvato un giovane partigiano ed aveva dedicato la sua vita al ricordo di un amore mai esistito. Forse sognato.


La professoressa Gagliano


La nostra professoressa più amata era quella di francese. Si chiamava Gagliano e si muoveva molto lentamente, per la sua mole notevole. Vestiva sempre di nero; era la vedova di un misterioso marito, molto amato e scomparso da tempo immemorabile.
Era molto anziana e sempre sorridente, un viso dolce e dei capelli biondo-bianchi forse tendenti al giallo dorato, radi. Braccia e busto sottili poggiavano sul resto immenso.
Una piramide nera come l’ardesia della lavagna al lato della cattedra, su cui si arrampicava come scalando una montagna. Tutti in piedi, come ci eravamo disposti al suo ingresso, osservavamo, nel più assoluto silenzio, il suo issarsi fin sulla pedana ed il successivo incastrarsi nella poltrona dagli ampi braccioli. L’ansimare si calmava e finalmente, ad un cenno bonario della piccola mano, tutti seduti. Adorava Théophile Gautier e ci faceva leggere “Il Capitan Fracassa” in aula ad alta voce. Qualche volta gradiva che lo recitassimo. Con lei avevamo tutti anche più del sei, voto che nelle altre materie del liceo classico che frequentavamo, era un sogno spesso irraggiungibile.
Il mio ricordo è legato al giorno in cui venne in aula con una pennellata gialla di uovo alla coque, ancora sul mento. Scoprimmo, che i nostri professori erano esseri umani con una vita ed una prima colazione. Non entravano dalla porta, esistendo ogni giorno per noi e la porta, all’uscita, non li inghiottiva in un nulla vuoto e popolato solo da professori e professoresse. Questo avveniva nei lontani anni cinquanta.