La pioggia fitta della fredda notte di febbraio ha lucidato le foglie del gran ficus. Il cortile è un lago di verdi oscurità: l’arancio selvatico, il melograno, i teneri rami delle ortensie potate e i cespugli di rose accanto alle felci nei vasi. La porta a vetri del terrazzino al primo piano illumina la cucina di Esmeralda, il pavimento a piastrelle rosso cupo le pianelle scure della vecchia. A passetti come quelli dei piccioni , la figura tarchiata s’avvicina ai vetri, apre la porta e appare nel balcone largo e stretto.Sul muro tre padelle colore dell’argento e trecce di agli e cipolle, due pentoloni sul mobiletto, un tempo bianco, un secchio arancione sul mattonato e due scope. Qualche goccia schizza sul parapetto di travertino. Il largo viso orientale disegnato di rughe profonde, i grandi occhi sorridenti guardano al cielo di perla lassù in alto dopo i settimi piani. La Smeralda, così la chiamava mia madre, ha i lunghi capelli aggrovigliati dalla notte e dal cuscino, sciolti sulle spalle, strisce di grigio e di bianco, indossa un’antica vestaglia di lana a scacchi blu e rossi, uno scialle ocra. Ora allarga le braccia a mani aperte e rivolte verso l’alto e bisbiglia qualcosa, compunta. Saluta il suo Dio e saluta il mattino e i piccioni che becchettano qualcosa sulla balaustra. La preghiera è lunga e rivolta ad un preciso punto dell’universo; la guardo incantato tra le mie veneziane aperte, al terzo piano di fronte. Smeralda si ferma e senza abbassare le braccia si volta ad angolo retto e riprende a parlottare. Vedo la bocca in movimento, il suono e le parole, posso solo intuirle, io non le so. Ora ha concluso il suo breve incontro si gira e rientra in casa e chiude la porta a vetri, è sparita ancora a piccoli passetti come i piccioni che lei stessa nutre giorno per giorno. La pioggia è fitta. Ho finito la mia sigaretta, abbasso la veneziana che scende rumorosa nel silenzio, rientro nella mia cucina.